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giovedì 30 dicembre 2021

Natale, lo stile di Dio che sorprende

Uno splendore che dirada ogni tenebra

 


 

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Nessuno ha mai visto Dio. (Gv 14,18) Molte volte ci fermiamo qui. Rischiamo di vivere come se l’incarnazione non fosse mai avvenuta, come se Dio fosse chiuso nella sua distanza, nel suo mistero. Rischiamo di vivere come se non potessimo sapere nulla di lui, come se dovessimo accontentarci di farci un’idea, e questo è quanto mai pericoloso. Le nostre idee di dio sono traballanti, lacunose, deformanti. Hanno a che fare con i nostri pregiudizi e le nostre paure. Proprio le paure spesso ci spingono ad immaginare un dio severo, che ci misura, che ci giudica. Temiamo le nostre fragilità, le nostre inadeguatezze, i fallimenti; queste paure diventano presto giudizi negativi su noi stessi, ed altrettanto presto attribuiamo questi giudizi a Dio. Temiamo il confronto con la realtà, con gli altri, e le paure diventano giudizi, giudizi divini.

 

Viviamo in un mondo che vive la logica del più forte, del più furbo, del più potente. Al tempo della nascita di Gesù, Cesare Augusto aveva prodotto disagio e scompiglio imponendo con il potere il censimento. Oggi i poteri in atto sono altri, ma sono altrettanto capaci di pesare sulle nostre vite. In modo subdolo deformano il nostro punto di vista, la lucidità dei pensieri. Creano bisogni e indirizzano scelte. I “Cesare Augusto” e i “Quirinio” di oggi hanno il nome di poteri economici, di idee di tendenza, di influencer in vista. Non muovon più le masse con editti, ma con la logica delle tendenze, dello stato sociale, delle mode, dei “mi piace”, degli standard, dell’adeguatezza, della competizione  spietata, della prestazione.

 

Viviamo in questo contesto, e rischiamo sempre di esserne condizionati. Siamo immersi in logiche di potere che finiamo per credere giuste e dalle quali ci facciamo giudicare. Ci sentiamo buoni o cattivi a partire da criteri che ci sono imposti, che non valorizzano la nostra originalità, anzi la costringono e la mortificano dentro criteri che non ci appartengono. Siamo sballottati da potenti e finiamo per desiderare noi stessi di diventare potenti. Vogliamo avere tutto sotto controllo. Quello che c’è dentro di noi e quello che sta fuori. Viviamo di ansia per quello che non raggiungiamo e non siamo, e nel frattempo dimentichiamo che, dentro di noi, impastato con i limiti, c’è un tesoro prezioso, originale, che Dio ha dato a ciascuno e che attende, talvolta purtroppo inutilmente, di germogliare. 

 

Così travolto da queste dinamiche, il mondo non si importa di Dio. La vicenda di Maria e Giuseppe sembra del tutto marginale. Cos’è una giovane coppia di fronte a tutto il resto? Sono giovani, che pensino loro a sé stessi. Gli abitanti di Betlemme sono distolti da ben altre occupazioni e preoccupazioni. C’è da far polemica sul potere dei romani, che divide gli uni dagli altri, quelli che lo vorrebbero cavalcare da quelli che lo vorrebbero combattere. C’è da cogliere l’occasione del censimento per raggranellare qualche quattrino. C’è frenesia, paura, rabbia, fastidio, e chissà cos’altro nel cuore della gente. Di certo non c’è posto, per null’altro. Così il Figlio di Dio nasce in una situazione di perfetta inadeguatezza, di totale marginalità, fuori dai giochi della storia, dalle vicende che contano secondo gli uomini. Il Verbo si fa carne, ma i suoi non lo accolgono (Lc 2,7 e Gv 1,11). Così, la vicenda di Maria e Giuseppe potrebbe apparire più che altro come una disavventura, ma che Dio è quello che dopo averli chiamati, dopo aver affidato loro un compito, li abbandona nella disavventura?

 

Potrebbe essere una domanda fondamentale del Natale. Che Dio è mai questo? È un Dio che si può conoscere solo se egli stesso si rivela a noi (Gv 1,18). Possiamo conoscere questo Dio solo se, come i pastori, accettiamo di metterci in viaggio. Il segno che l’angelo offre loro è piccolo, del tutto ordinario, potrebbe sembrare banale e insignificante. Un bambino. Tenero per carità, ma nemmeno conoscono i suoi genitori, e poi quanti bambini nascono sulla terra? Non sarà come tutti gli altri, fragile, muto, bisognoso di tutto? Sarà forse lui a fare la differenza? Eppure i pastori si mettono in cammino, e scoprono che è proprio così. Un bambino fa la differenza. Dio ha deciso di entrare nella storia del mondo facendo la differenza. Per questo Non si mette in competizione con i potenti e non esercita un potere come loro lo esercitano. Non fa clamore e non cerca consenso, Si fa spazio silenziosamente a partire da chi lo accoglie. Non fa guerra a chi lo rifiuta. Non forza, non fa pubblicità ne “campagna elettorale”. La porta attraverso la quale Dio entra nella storia è il cuore di chi lo accoglie, in silenzio. Egli viene a compiere la promessa di bene che c’è nel cuore di ciascuno. Non magicamente, ma accompagnando il nostro cammino umano con la sua potenza divina. La presenza di Dio, per chi la accoglie, ha le sembianze di una vita nuova, che come un bambino è fragilissima eppure ricca di potenzialità. Chi se ne prende cura la vede crescere giorno dopo giorno, e piano piano si accoglie dello straordinario che sta in quella vicenda intima, apparentemente così nascosta. Dio cambia il mondo a partire dal cuore di chi lo accoglie. Non fa salvezza lontano, in modo che la si debba rincorrere, guadagnare, meritare. Lui è salvezza, dentro la vita concreta, non conta se essa è limitata e marginale, anche la mangiatoia di Betlemme lo era.

 

C’è un potere che Dio porta con se, ma per consegnarlo a noi. È il potere di diventare figli, di nascere di nuovo, non dalla carne e dal sangue, ma dal suo Amore fecondo (Gv 1,12-23). Chi accoglie è generato di nuovo. Chi fa spazio è inondato di nuova vita. Rinasce chi crede a lui, chi accetta di abbandonare le sue idee e i suoi idoli per mettersi in viaggio verso di lui. Non c’è bisogno di nessun requisito iniziale. Non importano i giudizi, né quelli del mondo né quelli durissimi che ciascuno pronuncia per se stesso. Non c’è buono o cattivo, adeguato o inadeguato, sufficiente o insufficiente. Non c’è ricco o povero, saggio o ignorante. Non c’è vicino o lontano, santo o peccatore. Davanti al Verbo eterno di Dio che si fa carne, davanti all’annuncio dell’Angelo ai pastori, c’è solo chi accoglie e chi rifiuta. Nella vita di chi lo accoglie, Dio nasce e fa germogliare una vita nuova che, come quella di un bambino in fasce, avrà bisogno di essere alimentata e custodita, ma che viene data in dono senza nessuna discriminazione. Anzi, Come un giorno il Verbo si fece carne in un lembo emarginato dell’umanità, anche oggi egli nasce in quell’angolo del cuore dove abbiamo nascosto le nostre debolezze. Egli viene ad abitare in noi là dove ci sentiamo inadeguati, non all’altezza. C’è posto per lui nel cuore proprio dove ci sono le nostre fragilità, i nostri limiti, la paura di non farcela, di non riuscire a vivere quello che vorremmo. C’è spazio per Lui che salva là dove il potere ci tiene prigionieri, ci mortifica, ci causa ribellione, frustrazione e tristezza, dove il passato ci tormenta con le sue ferite e le sue conseguenze che sembrano definitive. C’è un alloggio per lui là dove ci assale la paura di non trovare la strada della nostra realizzazione, o di
rovinare tutto a causa dei nostri errori, della nostra piccolezza.

 

Mettersi in viaggio dunque, ed accogliere, ma non basta. Una vita che nasce porta con sé un potenziale immenso che si dispiega nel tempo, che ha bisogno di cura e pazienza. Un neonato è fatto per diventare uomo, e molto di quel che sarà è del tutto imprevedibile per chi lo guarda. Così, Maria custodisce e medita. Custodisce, perché la frenesia delle cose non si porti via un dono così grande. Medita, e così accoglie sempre di nuovo il senso della sua vita. Chiamata ad essere madre di Dio, diventa madre giorno dopo giorno, vivendo in profondità la relazione con quel Dio bambino che cresce accanto a lei. La sua vocazione è impastata di fedeltà, di perseveranza. La sua identità le viene sempre di nuovo dalla relazione con quel bimbo. Così per noi. Giorno dopo giorno, sempre di nuovo in cammino, sempre di nuovo intenti ad accoglierlo, vediamo la sua vita crescere in noi, accogliamo da lui la nostra identità. Accogliendo sempre più pienamente lui diventiamo sempre più pienamente noi stessi.

 

Che il mistero del Natale ci possieda. Che non si spenga in noi l’eco di quella voce: “Oggi è nato per voi un Salvatore…”, e ci spinga sempre di nuovo a metterci in cammino verso di lui. Che la luce del verbo, che è la nostra vita, continui a risplendere in noi, e diradi nel nostro cuore quella la tenebra che ricopre la terra, quella nebbia fitta che avvolge i popoli (Is 60,2) e ci mostri la via della nostra concreta, autentica salvezza. 

sabato 25 dicembre 2021

Avvento

 Sulla soglia di un mondo nuovo

ripensando ai vangeli del tempo di Avvento



I discepoli di Gesù vivono sulla soglia della porta che il Signore ha spalancato per loro. Sono immersi nella realtà, ne patiscono le contraddizioni, ne godono le risorse, ne soffrono la decadenza, ne colgono le occasioni, ne sperimentano il travaglio. Il loro sguardo però, oltre la porta, contempla la promessa del regno. Anzi, proprio perché vivono sulla soglia, non solo contemplano, ma anche pregustano la pienezza e l’eternità, e inebriati da essa vivono ogni cosa con uno spirito diverso, nuovo.


I credenti vivono in un’umanità che ha respinto Dio, lo ha reso insignificante, lo ha dimenticato come si dimentica un vecchio ricordo imbarazzante. L’avventura dell’uomo senza Dio però, si rivela sempre di nuovo drammatica. Senza di lui, nulla costituisce un punto di riferimento stabile che resista alle avversità della vita e alla morte. Nulla garantisce salvezza dentro i limiti dell’umanità. Senza di lui nessuna morale regge davvero, nessuna prospettiva riempie davvero il cuore. Dentro questo smarrimento, alcuni si illudono pensando che il loro potere economico e sociale li salvi e li compia.   Alcuni vivono in un rassegnato fatalismo. Altri ancora consumano un eterno presente, succhiano con smania relazioni ed eventi, sempre ebbri e sempre vuoti, sempre gratificati e frustrati ad un tempo. 


Senza Dio l’umanità è travolta dalla sua caducità, la finitezza delle cose, di tutte le cose. Tutto passa, il cielo e la terra passeranno. Passano le strutture degli uomini, le loro organizzazioni. Entrano in crisi le tradizioni, le costruzioni, i progetti. Le istituzioni più solide e fondate, anche quelle religiose, prima o poi vedono la crisi e passano. Tanto più hanno la pretesa di essere stabili, eterne, tanto più fanno danni quando la loro natura, fisiologicamente caduca, le fa scricchiolare, vacillare, implodere.  Chi si prodighi a tenerle in piedi, ottiene lo stesso risultato che si avrebbe tentando di rianimare un cadavere. Davanti a questo panorama, a questa ciclica distruzione, qualcuno annunciano sventure, disgrazie che sono castighi, orizzonti angosciati di giudizio severo, di condanna, di eterna pena. Qualcuno cerca di darsi certezze annunciando l’arrivo della fine del mondo, o identificando in un luogo o in una persona l’arrivo del regno o il ritorno del Signore. Le parole di Gesù sono chiare: “nessuno conosce il giorno e l’ora”. E ancora “vi diranno: “eccolo qui… sono io…” non credeteci, non andateci”. 



I discepoli di Gesù vivono intensamente questa vicenda e ne patiscono il travaglio, ma non vi restano imprigionati perché abitano sulla soglia, vigilano. Stanno svegli non perché temono che la decadenza del mondo , ma perché non vogliono esserne inquinati e travolti. Vogliono custodire e rinnovare ogni giorno la forza di sfuggire a questi inganni, alle paure, alle finzioni che impoveriscono e impediscono la vita, al mito dell’uomo autosufficiente, gonfio della propria illusoria autonomia o arrabbiato contro il suo eterno vuoto, ma sempre intento ad esorcizzare la morte. I credenti non temono di morire, ma di non riuscire ad accogliere la pienezza del dono di Dio, di non vivere in maniera autentica e compiuta. Stanno svegli non come chi, a causa dell’angoscia o della smania, è stato abbandonato dal sonno. Nemmeno però dormono il sonno incosciente e presuntuoso di chi pensa di bastare a se stesso. La loro vigilanza è a tratti faticosa, ma serena, attende l’incontro con l’amato, il compiersi di un amore che già li tiene in vita, ma che promette un orizzonte sempre più grande e che si compirà all’arrivo dello sposo.


Gesù Cristo è venuto a portare salvezza. Egli invita i suoi discepoli a non pretendere di incasellare il tempo e la storia. Arrovellarsi cercando di stabilire il giorno del giudizio e della fine è una diabolica perdita di tempo. Piuttosto i discepoli approfondiscono la relazione di fiducia con il loro salvatore. Mentre il mondo vacilla, mentre le sue strutture implodono, mentre avanza la sua cultura, fatalmente segnata dalla morte, i credenti  si alzano in piedi e levano lo sguardo al di la della soglia, oltre la porta che fa loro contemplare il regno. Essi non sono preda della paura, non temono, confidano nel loro Signore. Non hanno la smania di conoscere il futuro, sanno che esso è nelle mani del Salvatore, e che uniti a lui sapranno affrontare ogni evento.


Davanti alle alterne vicende della storia, i credenti non fuggono, non cercano qualche tecnica per annebbiare i sensi, per proteggersi in una bolla ovattata di inconsapevolezza. Non si perdono in esagerazioni e in ubriachezze. Restano presenti e lucidi perché sanno che proprio lì, dentro la storia concreta il Signore viene loro incontro. Egli è presente, e i suoi non vogliono rischiare di essere assenti, di disertare l’incontro.  Quella del Signore è una presenza dinamica, egli arriva, sempre di nuovo. Passa e mette in moto il cammino, lo orienta, lo rinfranca. Si presenta in una parola, nel volto di un fratello, in una ferita da sanare, in una fatica da leggere con speranza. Per questo è importantissimo, irrinunciabile, ma non sufficiente vivere di appuntamenti saltuari (quello ad esempio dei sacramenti). I credenti vegliano per essere sempre presenti, sviluppano una particolare sensibilità alla sua voce per cogliere ogni soffio del suo passaggio, ogni piccolo segno del suo sorprendente farsi vicino. 


I discepoli di Gesù non si accontentano però di attendere, di vegliare, di cercare la presenza del Signore. Essi anche agiscono. Sanno bene che il loro impegno per la giustizia non basta, non basta la loro carità, non è sufficiente il loro impegno, ma questo non ferma il loro impegno. Essi fanno tutto quello che possono senza disperare, senza provare disillusione o senso di fallimento. Lavorano sapendo il Signore compie la loro fatica. Misurare i risultati è troppo poco per loro, essi vivono proiettati nella causa del regno che va ben oltre i conti degli uomini, anzi, talvolta li stravolge. Non contano solo sulle loro forze, le mettono in campo con generosità e dedizione attendendo il più forte, colui che porta la salvezza. 

I discepoli del Signore vivono nel mondo, ma hanno accesa nel cuore la fiamma viva di una promessa che si compie nell’eternità. Sono saldamente ancorati tanto alla terra quanto al cielo. Vivono nell’intimità con lo sposo l’anticipo del paradiso, e portano nella concretezza della quotidianità la sua luce, la sua speranza. Pregano, vegliano, lavorano,  si impegnano nelle umane attività, soffrono, consolano, camminano, accolgono e patiscono rifiuto, piangono e cantano, ma sempre nel loro cuore vi è un’invocazione, che è domanda, ma muove da una certezza, è il grido sommesso e incessante: “Maranatha, vieni Signore Gesù”.

martedì 23 novembre 2021

 Il potere uccide  



 Gv 18,33-37


33Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». 34Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». 35Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». 36Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno
fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». 
37Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

 

***

 

Pilato è un subalterno, un funzionario ma pure un uomo di potere. Lo esercita e ne è soggetto. Il sinedrio, altro potere in gioco, gli ha procurato il fastidio di questo processo, una fastidiosa seccatura che egli cerca di rispedire al mittente. Alla fine si laverà le mani in pubblico tentando così di scaricare la responsabilità (vedi Gv 18,31 e 18,38). Non sa nemmeno se esista un capo di imputazione (Gv 18,29-30)  parla solo per sentito dire (Gesù glie lo fa notare) e non gli interessa di stabilire se si tratta di fatto o di calunnia. Con ogni probabilità intuisce chiaramente l’intenzione maliziosa e disonesta del sinedrio ma non gli importa. Probabilmente alla fine sa bene di avere a che fare con un innocente (18,38b), ma non si spende per lui. Non gli importa nulla di Gesù, ne delle beghe fra giudei, almeno fino a quando non creano problemi troppo gravi di ordine pubblico. Non gli importa di emettere un giudizio giusto. Non gli importa di togliere una vita a caso. Gli importa solo di togliersi il fastidio senza rimetterci, di mantenere il potere, guadagnando consenso o ravvivando la paura. Non vuole disturbare qualche altro potente che potrebbe poi creargli fastidi. Non vorrebbe avere a che fare con Gesù solo per non rischiare di mettersi contro qualche eventuale fazione che lo sostiene. Isomma, Pilato è un uomo di potere, e, come capita quasi a tutti, il potere lo ossessiona, lo annebbia, lo avvelena, lo tiene prigioniero. Qualsiasi cosa egli dica e faccia è irrimediabilmente inquinata da questa ossessione. Egli è interessato solo a sapere se ci sia un re, e se esso vanti un potere. Gesù invece parla solo di regno, cioè dell’ordine di cose che il suo potere stabilisce. A Pilato interessa la condizione individuale, a Gesù l’effetto collettivo. Il regno è la nuova dimensione di vita che egli è venuto a instaurare non in proprio favore, ma in favore di chi la accoglie come dono. Il regno di Gesù non è di questo mondo. se lo fosse, avrebbe usato la violenza per affermarsi, tutti i poteri mondani lo fanno. Gesù non ha radunato un esercito, una truppa, un manipolo di guardie del corpo. Pietro davanti al tradimento e all’arresto del Maestro colpisce di spada, ma Gesù lo rimprovera.

Il suo regno è fondato sul suo Amore che lo conduce a donare la vita. Un Amore totale, gratuito, mite ed umile, che non si impone ma si dona. Questo amore i suoi sono invitati ad accogliere e a praticare come unica, somma legge della loro vita. Gesù non ha bisogno di consenso, per questo può rendere testimonianza alla verità. Al contrario, il potere ha bisogno della nebbia dell’inganno e della menzogna per coprire quello che non viene a suo vantaggio.

 

Gesù non è intimorito dal potere. Nessuno può togliergli la libertà di fare della vita un dono, nessuno può costringerlo a tradire questo amore. In realtà, davanti a lui, disprezzato e prossimo alla tortura e alla morte, Pilato è un miserabile prigioniero di se stesso, con l’unico potere di servire il potere.

 

Davanti a Pilato non possiamo che fare un profondo esame di coscienza. In quali e quanti casi accettiamo la logica dell’amore, umile e fedele, gratuito, che vive la logica della vita donata, e quando invece scadiamo nella tentazione del potere da esercitare? Il rischio è grave ed ha a che fare con tutte le relazioni umane, a tutti i livelli.

 

Quante volte, ad esempio, le nostre comunità, il nostro essere chiesa è inquinato dal potere? Quante volte ci importiamo del buon nome e del consenso dell’istituzione più che della verità? Quante volte mettiamo davvero al centro le persone, e quante volte invece finiamo per incasellarle dentro strutture funzionali al potere? Quanto viviamo di servizio autentico, gratuito, fatto per amore nella logica del dono, e quanto invece finiamo per ritagliarci un nostro feudo nel regno, rivendicando diritti di veto, accampando pretese di vario genere, creando circoli viziosi di dominio e sottomissione, di protezione di chi esprime consenso ed eliminazione di chi invece propone critiche e visioni alternative? Quante volte il Vangelo è fermento che cambia il nostro modo di pensare e di operare, e quante volte invece lo stravolgiamo per piegarlo a giustificare le nostre idee e i nostri modi di agire? Quante volte viviamo la conversione come profonda necessità di cambiare per essere fedeli a Cristo Signore, e quante volte invece la proponiamo a noi stessi e ad altri come sforzo per vivere in maniera più integrale quello che pensiamo di avere già capito? Quante volte giustifichiamo tutto ciò raccontandoci che è ncessario, che è il nostro vivere nel mondo che ce lo chiede?

 

L’elenco potrebbe allungarsi molto, ma più della malattia ci interessa la medicina: contemplare l’unico vero Re, il Cristo, che esercita l’unico vero potere, quello di dare la vita. Lontano da lui ci sono solo inganno e morte. Egli stesso, morto e risorto, è dono di vita per la nostra vita. Lui è il modello da contemplare e al quale conformarsi. Fedele all’amore, fedele e umile, fermo e mite, intenzionato a dare tutto se stesso senza nessuna pretesa di ricevere qualcosa in cambio. Questo è l’unico potere che cambia il mondo, che lo salva. Questo è l’unico potere al quale aderire con tutto se stessi, l’unico modo per passare dai regni della menzogna e della morte all’unico regno di vita e di salvezza. Questa regalità, così diversa e così lontana da quelle del mondo, si affermi allora a partire dal nostro cuore. Trovi spazio nel mondo a partire dalla nostra accoglienza, dalla nostra disponibilità a lasciarci trasformare integralmente. Proclamare Cristo Re dell’universo, significa in fondo desiderare che il suo regnare si affermi a partire da noi.

sabato 18 settembre 2021

Grande e vuoto o piccolo e fecondo

 


L'unica vera grandezza

 

Mc 9,30-37

 

30Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». 32Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

33Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». 34Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. 35Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti». 36E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: 37«Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

 

 

 

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La gara del confronto spietato inizia da piccoli, talvolta addirittura inizia dai genitori, che confrontano i progressi di crescita dei propri figli con quelli dei figli degli altri, e che sono poi tentati di confrontare tra di loro i fratelli e le sorelle. Cresciamo con l’idea che la competizione sia tutto, e che chi vince sia migliore. Cresciamo con l’illusione che se vinci, la tua vita avrà più senso per il solo fatto che sarà valutata superiore ad altre vite. Cresciamo pensando che se non c’è qualcuno che ti riconosce, che in qualche modo, con il suo giudizio, o anche con la sua invidia, dica quanto sei bravo, allora non sei nessuno.

 

Di questo discutono i discepoli lungo la via: di chi sia tra di loro il più importante, quello che vale di più, e che perciò conta di più nelle decisioni e può vantare più diritti. Sarà quello maggiore in età? O quello con più esperienza, o con più familiarità con il maestro? Sarà quello più bravo a parlare? Con quale criterio si valuta la vita di un discepolo, e più radicalmente di una donna o di un uomo?

 

La discussione dei discepoli stride fortemente con i discorsi del Maestro. 

Fuggita la folla che lo accalca, egli aveva appena cercato di condividere con i suoi amici intimi una scelta che va nella direzione opposta. Altro che gloria. Il Figlio dell’uomo viene consegnato. Ha scelto la logica del dono, e per questo verrà disprezzato, condannato, ucciso. Ma risorgerà, perché per questo egli è venuto, per dare la vita, per sempre. I discepoli non se ne rendono conto, ma la loro discussione risponde perfettamente alla logica di coloro che metteranno in croce il Maestro. Così Gesù si trova sempre più solo. Nemmeno con i suoi può condividere la sua scelta. Nemmeno loro lo aiuteranno a portarne le conseguenze pesanti e drammatiche. Egli però, con paterna insistenza, mostra loro quale sia l’unica strada per fare una vita grande. 

 

C’è li un bambino, il simbolo della piccolezza e della fragilità. Un essere prezioso a parole, ma spesso non in pratica. Gesù lo abbraccia e fa un’affermazione sconvolgente. Un solo gesto di protezione e di affetto nei confronti di un piccolo, ignorato, disprezzato essere umano, è più prezioso di tutta la grandezza del mondo, perché chi accoglie un piccolo accoglie Dio.

 

Purtroppo capita anche a noi come ai discepoli, che cioè ascoltiamo sì il maestro, pi però poi torniamo a ragionare con i nostri criteri, a preoccuparci di dare senso alla vita secondo la nostra idea di vita. E il discorso si fa presto ansia, paura, sospetto, screzio, perché quando si deve conservare una certa grandezza, prima o poi viene il momento in cui la si deve anche difendere, da qualcosa o da qualcuno. 

 

Questo Vangelo non può che metterci profondamente sotto sopra. Porta scompiglio dentro di noi, ma rende realmente feconda la nostra vita. Ai nostri discorsi e alle nostre preoccupazioni Gesù risponde con un gesto che dice tutto. Se davvero vogliamo che la nostra sia una vita grande, allora dobbiamo scegliere la strada della fecondità che è una sola, quella che lui ha percorso.

 

Al mondo sono molti i piccoli, i fragili, le persone ignorate, che nessuno considera, che il mondo emargina e disprezza. Abbracciarle significa considerarle, restituire loro un po’ di attenzione, significa spendere un po’ della nostra vita per sollevare, difendere, custodire la loro. Un solo gesto di questo genere rende la nostra vita grande e significativa più che mille inutili sforzi alla ricerca di visibilità. Una sola carezza data ad una vita oppressa per farla rifiorire, ci fa incontrare Dio più che mille eventi gloriosi. Così ha fatto Gesù, ha dato la vita mentre nemmeno i suoi se ne rendevano conto, e il suo dono ha fatto rifiorire l’universo. Lasciamoci sconvolgere da questa logica, lasciamoci guidare dal Maestro, e la nostra vita diventi davvero feconda, donata per dare vita.

mercoledì 21 luglio 2021

La paura e la fede

 
Il vento e il mare gli obbediscono

 

[Gesù] 35In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all'altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com'era, nella barca. C'erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t'importa che siamo perduti?». 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». 41E furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

 

***

 

Una tempesta ci rivela sempre qualcosa di noi stessi. Ci dice quali sono le nostre fragilità, e più in generale che siamo fragili. Ci mette con forza davanti al fatto che nella vita realtà più grandi di noi, più forti, incontrollabili. Ci dimostra che non possiamo avere vittoria su tutto con i soli nostri mezzi. Una tempesta ci fa arrabbiare. Quando ci capita, ci mettiamo presto alla ricerca di un colpevole. Qualcuno dev’essere responsabile della nostra fatica, della nostra paura, della nostra sofferenza. Dobbiamo pure sfogare la nostra aggressività contro qualcuno. E poi, la rabbia e la paura, riempiono la nostra testa di nebbia fitta. Tutto quello che i nostri sensi percepiscono è deformato, opaco, la lucidità sparisce. 

Ecco cosa succede sulla barca. Gesù dorme. La potenza della tempesta non lo destabilizza. I suoi discepoli invece, presi dalla foga di fare da soli, entrano nel vortice della paura, e tutto li travolge. Perché non invocare prima l’aiuto del Maestro? Perché non chiamarlo subito? La violenza del vento e del mare li trascina nell’inganno di chiudersi in se stessi, di cercare di farcela da soli, di individuare un colpevole contro il quale arrabbiarsi che, ironia della sorte, è proprio colui che avrebbe potuto tenerli lontani da questa tempesta interiore. La relazione è soffocata, ora non sono più amici, discepoli, ma un gruppo di singoli dove ciascuno in fondo fa per sé. Ed ecco la rabbia, l’angoscia, le accuse. 

La tempesta ci rivela qualcosa di noi stessi. Ci dice quanto sia fragile la nostra relazione con il Signore, debole e limitata la nostra fiducia in lui. La fede è il contrario della Paura, Gesù lo sa, e lo dice ai suoi, ma solo dopo averli salvati. Gesù non è venuto a rinfacciare agli uomini i loro limiti, ne a premiarli per i loro meriti. Egli è venuto per dire una verità che però sia servizio alla vita. Riconoscere la propria fragilità è essenziale; stringere una relazione profonda con lui nel tempo della bonaccia si rivela vitale nel tempo della tempesta. Ancor prima però, Gesù è venuto a salvare, e chi lo accoglie sulla barca, al netto delle proprie povertà, sperimenterà di certo lo stesso stupore di quegli uomini sul lago di Galilea: Le forze che ci lasciano impotenti e ci travolgono, obbediscono come fiere ammansite alla sua parola. 

L'infinito nel minuscolo

 S-proporzioni

 

 

[Gesù] 30Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell'orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».

Gesù parla con parabole

33Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. 34Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

 

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La nostra idea, quella che applichiamo anche al regno, è quella della proporzionalità diretta. Se nessuno si accorge di te, non servi a nulla. Se quel che fai riguarda pochi, allora esisti, ma sei insignificante. Per ottenere grandi risultati, bisogna fare gesti eroici, avere grandi capacità, grandi competenze grandi idee. Se poi, come oggi ci si trova davanti ad un mondo particolarmente resistente al messaggio della fede allora la frittata è fatta. Ciascuno di noi potrebbe concludere: “siccome non sono San Francesco, Madre Teresa o un altro di quei grandi santi che hanno fatto parlare di se in tutto il mondo, allora il mio contributo conta poco”. Oggi questo ragionamento impedisce a molti credenti di vivere in maniera serena, gioiosa, feconda la loro vita di fede, e produce discepoli un po’ complessati, un po’ arrabbiati, un po’ individualisti. La parabola del granello di senape porta con se una potenza che sa sgretolare questi ragionamenti. Il regno è un seme minuscolo. I discepoli sono chiamati a seminarlo, senza far conto delle proporzioni. Esso infatti porta con se un potere di vita che l’umanità non può nemmeno immaginare. Un sorriso, un po’ di tempo passato ad ascoltare, un gesto di gentilezza, una parola buona, di pace, di riconciliazione, che sappia lenire un po’ le ferite, riportare un briciolo di speranza. Se ci lasciamo abitare dall’Amore del Signore, piano piano, senza rendercene conto, diventiamo seminatori di granelli di senape che portano dentro un potere di vita inimmaginabile. Il regno non ha bisogno della nostra disponibilità a fare grandi progetti. Non si serve principalmente di eroi, ne di persone molto competenti e preparate. Il regno ha bisogno di uomini e donne liberi e sereni, che siano disposti a lasciarsi abitare dal Signore, a lasciarsi trasformare da lui in piccoli granelli di senape, in seminatori di piccole briciole di regno. Piccole, ma potenti, perché abitate dalla potenza di vita di Dio.

sabato 10 luglio 2021

La saggezza di saper attendere

 La scommessa di gettare un seme

 

 

[Gesù] 26Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

 


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Gettare un seme sembra il gesto di un momento, ma è in realtà una grande scommessa. 


 

Quest’uomo scommette sul seme. Conta sulla sua fecondità, l’esperienza lo rassicura. Sa che germoglierà, ha seminato molte altre volte. Eppure, quel piccolo seme, resta in parte sempre misterioso, e il gesto di gettarlo comporta sempre un po’ di fatica.

 

Il seminatore scommette su delle condizioni che non dipendono da lui. Certo, vigilerà sul suo seme. Si accorge per questo che il frutto è maturo, perché non ha abbandonato il seme, lo ha seguito nel suo germogliare, nel suo diventare stelo e spiga, nel suo maturare il chicco pieno. La sua vigilanza però nono può custodire del tutto questo processo. Egli deve accettare che la sua opera sia in parte esposta a forze più grandi di lui. Basta una tempesta di grandine al momento sbagliato.

 

Questo contadino scommette infine su se stesso. Mette in campo esperienza, energia, disponibilità, costanza, dedizione, ma non solo. Egli deve vigilare su se stesso. L’opera in fondo breve della semina, è seguita da una lunga attesa, e l’attesa scatena sempre nel cuore una lotta. Paura e fiducia si combattono, la smania di controllare tutto e la coscienza del proprio limite si affrontano. Si affollano all’orizzonte le domande: che ne sarà del seme? Che ne sarà di colui che lo ha seminato? Alla fine sarà ricompensato o tradito? Quando finirà l’attesa? Il seminatore potrà veder ricompensata la sua fatica contemplando il frutto del suo lavoro?

 

Il regno vive dentro questa attesa, questa lotta. Il seme dell’annuncio gettato ha bisogno di tempo per germinare. La Parola di Dio annunciata con parole e gesti, lavora nel segreto dei cuori. 

Chi la semina, deve essere disposto ad attendere con pazienza, a portare in cuore la fatica del tempo che passa, a custodire le domande buone senza lasciarsi travolgere dalla loro forza, a scacciare le domande sbagliate, a chiedere luce allo Spirito per distinguere le une dalle altre. 

Chi semina deve essere disposto a vigilare in silenzio, ravvivando nel cuore la speranza del buon esito del suo lavoro, ma anche riconoscendo che la fecondità sfugge al suo controllo. La fatica della vigilanza deve essere mossa da amore gratuito, per il seme, per chi lo riceve, per i frutti che forse matureranno. Chi semina, insieme al seme deve essere disposto a dare gratuitamente se stesso. 

 

Contro ogni efficientismo, contro ogni pretesa di programmare e verificare, ecco la spiritualità del discepolo. Mentre aderisce al regno è chiamato a diventarne costruttore, seminando Parola di Dio nella forma della vita vissuta prima che delle parole dette, e vivendo la stessa logica di dono del Maestro, una logica di totale amore e gratuità, di profonda cura e di rispetto della libertà di chi accoglie il seme, ma anche di libertà del seminatore. Il suo cuore deve infatti essere libero da paure, da desideri di conferma, da smanie di autoaffermazione, tutto affidato al Signore, suo unico bene, tutto proteso a seminare, restando in vigilante attesa che il seme produca frutto a suo tempo.