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sabato 29 luglio 2017

Simili e diversi

Investire nel Bene


Mt 13,24-43

In quel tempo Gesù Espose loro un'altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?». Ed egli rispose loro: «Un nemico ha fatto questo!». E i servi gli dissero: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?». «No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio»».
Espose loro un'altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell'orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
Disse loro un'altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
Aprirò la mia bocca con parabole,
proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo.

Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l'ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!

Simili al punto da sembrare davvero identici. Da giovani, solo minuscoli dettagli li distinguono. Il grano e la Zizzania  differiscono in tutto, la storia, la sostanza, gli effetti, ma non nell’aspetto: all’apparenza, fino ad un certo punto della loro vita, sono due gocce d’acqua.
L’uno è selezionato, conservato con cura, seminato di giorno con speranza, da mani esperte; custodito da parassiti e uccelli, innaffiato con premura. Produce un seme buono, diventa chicco pieno, farina, pane profumato, nutre, sazia.
L’altra è seminata senza riguardo, di notte, con cattive intenzioni. Cresce con tenacia selvaggia, infesta ed è infestata. Un fungo la abita, la inquina e la rende tossica, mangiarla è un rischio.
La notte della zizzania è il tempo dell’insidia, dell’ambiguità, nella quale il buio avvolge ogni cosa rendendo tutto pericolosamente difficile da classificare, da distinguere: l’ambiguità è troppo grande, il rischio troppo elevato. Di notte gli uomini sono colti dal sonno, condizione di incoscienza e perciò di fragilità. Il male è seminato nel nostro buio, là dove non arrivano i nostri ragionamenti. È seminato di notte e poi cresce, cresce insieme a tutto ciò che è buono; nessuno sa da dove venga, si sospetta addirittura del padrone. Lui però sa bene che esiste una sola spiegazione: L’opera maliziosa di un nemico ha seminato questo frutto tossico, lo ha mescolato irreparabilmente con quello buono. Che fare? liberarsene subito? Questa premura sembrerebbe dettata da buon senso, ma sarebbe fatale. Sono troppo simili le due piante, quanto buon frutto si sprecherebbe tentando di liberarsi da quello velenoso?
Non serve spendere parole per dire quanto questa parabola assomigli alla nostra vita e alla vita della Chiesa. Perché il male, anche dentro la comunità dei credenti? Da dove viene? La tentazione di sospettare di Dio è forte, ma c’è bisogno di una sapienza più grande. Il male agisce nel buio, per malizia, semina ambiguità e inganno che porteranno un frutto velenoso. La tentazione di scendere in guerra contro questo male sembra l’unica alternativa alla rassegnazione. Per Gesù invece, c’è una terza via, quella davvero buona. Sarà Dio stesso, alla fine del mondo, a dividere i buoni dai cattivi, a noi questo compito non spetta. Il male è troppo potente per noi, nei suoi inganni. L’unica lotta contro il male  che ci spetta è quella che siamo chiamati a combattere nel nostro cuore, e la strategia che Gesù ci suggerisce è quella di far crescere a tutti i costi il bene di impastare il vangelo con la nostra vita perché tutta ne risulti lievitata, di far crescere il minuscolo seme perché divenga grande pianta. E così siamo chiamati ad essere anche nel mondo, un piccolo seme, ma pieno di forza e fiducia, un pizzico di lievito, ma vivo, capace di far lievitare relazioni e incontri con la forza nascosta ma potente che viene dal vangelo, dal nostro appartenere a Cristo Signore! Questo è il contributo di cui il regno dei cieli ha bisogno da ciascuno di noi.



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giovedì 20 luglio 2017

investimento e spreco

Un realismo che sa sognare

Mt 11,25-30

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.
Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».
Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. 
Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice:
“Udrete, sì, ma non comprenderete,
guarderete, sì, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi
e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano e io li guarisca!”.
Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».
 

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Grande realismo nei discorsi di Gesù. Sa bene che il suo non è un messaggio di grande successo. Il seme della sua Parola ha al massimo una speranza su quattro di fare radici nel cuore degli uomini, ma questo non lo rattrista, non lo frena, nemmeno lo ridimensiona. Egli è venuto a mostrarci il volto di un Dio che non conosce risparmio quando è il momento di amare, di seminare, di sperare, di offrire possibilità di fecondità. Gesù è realista, sa bene che noi ascoltiamo, sì, ma poi sono molti i disturbi che ci ostacolano. A volte non facciamo lo sforzo di capire bene, altre volte ci lasciamo toccare, ma poi dimentichiamo, siamo incostanti; altre volte ancora ascoltiamo sì la Parola, poi però continuiamo a sperare che siano i nostri progetti, i nostri conti, (la preoccupazione del mondo) i nostri beni (la seduzione della ricchezza) a regalarci bene e salvezza. Il Maestro conosce bene questi meccanismi, eppure, nonostante questo, si siede (segno che sta per dire una parola autorevole, solenne) e ribadisce in maniera definitiva che l’amore di Dio non finisce, non si esaurisce la sua generosità! Dio semina, anche se il terreno non riceve! Il Padre desidera a tutti i costi di raggiungere i suoi figli, vuole che tutti sperimentino la gioia del suo amore che salva, libera da inganni e schiavitù, riempie il cuore. Il Padre ha preparato addirittura un piano di misericordia finale per quelli che resteranno sempre impermeabili al suo messaggio: constaterà la loro malattia, li guarirà. Il suo desiderio profondo però è di farci assaporare oggi la bellezza della sua parola, di seminarla in noi perché porti già da ora in noi un frutto di bene, di beatitudine! Beati voi che accogliete questo dono, la semina della parola. Molti lo avrebbero voluto, voi lo godete. Beati noi? Ma davvero ci sentiamo privilegiati per la possibilità di ascoltare il Vangelo? …forse dovremmo iniziare a pensare così, forse dovremmo scolpire nel cuore la convinzione che la Parola di Cristo che ascoltiamo è un dono che ci fa privilegiati… forse allora le faremmo spazio, ci verrebbe più facile prepararle un terreno buono, ce ne ricorderemmo con più facilità e limpidezza. Beati noi se ci capiterà questo. Beati noi se avremo il coraggio di guardarci dentro e di chiederci quando, come e perché lasciamo cadere a vuoto un dono così grande. Dio, continuerà comunque a sognare per noi la gioia del suo regno, continuerà a seminare Parola, desideroso di vederla portare nel nostro cuore  frutti di beatitudine, di pace, di salvezza.

sabato 15 luglio 2017

Il ristoro dell'anima

Trovare pace

Mt 11,25-30

In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

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Sembra impossibile, ma il dettaglio più strano e un tantino fastidioso di questo Vangelo è un punto di partenza ideale per comprendere l’esultanza di Gesù. Il giogo è uno strumento di fatica, richiama alla mente uno sforzo animale e sembra strano e fastidioso che Gesù lo proponga ai suoi discepoli addirittura come fonte di ristoro. A pensarci bene però, una vita che rifiuta la fatica, rifiuta ad un tempo di mettersi in gioco, di investire energia in qualsiasi cosa, e finisce fatalmente per svuotarsi, diventando triste e insignificante. La vera questione saggia per una persona è chiedersi in che cosa valga la pena di investire le proprie energie. La proposta di Gesù è un’alternativa a quella che la tradizione ebraica considerava da secoli l’unica proposta possibile.

Il giogo fecondo, l’unica fatica utile, consisteva per gli ebrei nello sforzo di conoscere e rispettare la legge. dentro a questo sforzo però c’era e c’è un’ambiguità fatale. Chi immagina la fede come un complesso di cose da fare, come una morale da rispettare, impara le regole (o se le sceglie in base al gradimento) e le osserva, si sente a posto e non percepisce nessun desiderio di aprire il cuore a Dio. Fatalmente in questo caso la legge produce chiusura nei confronti di quel Dio che avrebbe dovuto indicare! Gesù non se la prende con la conoscenza, ma sperimenta nei fatti che i dotti e i sapienti si sentono autosufficienti, e per questo lo rifiutano. La loro non è conoscenza profonda di Dio, relazione con lui attraverso il suo Figlio, ma solo conoscenza di norme. Che aridità in tutto questo. Coloro invece che si sentono piccoli, bisognosi, non si chiudono in se stessi ma tengono aperto il cuore, la porta delle relazioni, per questo accolgono il Maestro. Il Giogo che Gesù è venuto a portare, al posto di quello della legge, è il Giogo della relazione. Aprire il cuore, cercare il Signore, accoglierlo con il desiderio di far crescere una relazione con lui non è certo una passeggiata. Lasciarsi amare da Dio, rispondere a questo amore, vivere la propria vita nel segno di questo amore non è facile, comporta una fatica, un giogo, ma questo sforzo è quanto mai fecondo. Al posto della sterile fatica della legge, Gesù propone quella feconda dell’amore, da accogliere con umitlà e mitezza; una fatica che porta nel cuore il frutto splendido del ristoro, della pace. Sì, perché il vero riposo, quello che penetra nel cuore e nell’anima e li ristora, non è il riposo vuoto del non fare niente, ma il riposo che si trova nel sapersi sempre di nuovo amati e rinnovati dall’amore. Oggi più che mai, sappiamo bene come riposare il corpo, ma rischiamo sempre che il nostro cuore rimanga affaticato e oppresso. Perché non rischiare? Perché non affrontare il cammino, anche faticoso, di aprire il cuore a Dio per accogliere il suo amore, il suo ristoro?




“…mite e umile di cuore…” pensieri sparsi…


Un cuore assetato di Dio, che trova nella conoscenza della sua parola una fonte alla quale abbeverarsi, sarà colmo di gratitudine per la possibilità che ha di scoprire ogni giorno di nuovo un tratto del volto splendido di Dio. Imparerà sempre cose nuove, si arricchirà di conoscenza e la accoglierà nell’umiltà perché la considererà un dono; godrà con semplicità e limpidezza di quello che sa; sarà grato per aver avuto questo dono e non avrà mi la pretesa di appropriarsene. Un autentico credente non riterrà il suo essere piccola creatura una condizione da vivere con senso di inferiorità, con invidia, non cercherà di liberarsi dalla percezione della sua piccolezza ne costruirà muri per nasconderla o armi per difenderla. Sarà invece mite. Riconoscerà sempre di nuovo la sua piccolezza, mai considerandola motivo di sconforto ma sempre affidandola a Dio e al suo amore. Un credente sa che la sua piccolezza è amata, desiderata, una perla che Dio considera preziosa. Gesù si trova davanti ad un panorama ben diverso da questo. Coloro che hanno avuto la fortuna di conoscere la legge di Dio, la sua Parola, la esibiscono come una dimostrazione di superiorità. Conoscere la legge non è servito loro ad accogliere Dio, ma ad appropriarsi indebitamente di uno strumento di potere. Dicono e non fanno, sanno ma non vivono. Legano pesanti fardelli, ma non vogliono spostarli neppure con un dito. Invece che imparare dalla legge l’umiltà, l’hanno trasformata in strumento di superbia. Invece di considerarla strumento per aprire il cuore a Dio e porre in lui la sua fiducia, si sono fidati solo del proprio sapere. Quante volte sperimentiamo questa tentazione? Quante volte ci ritagliamo un pezzetto di legge da rispettare, e sulla quale fondare la nostra certezza? Quante volte rischiamo di sentirci a posto, o fuori posto, non perché abbiamo cercato Dio ma perché ci sentiamo fedeli o trasgressori?

giovedì 6 luglio 2017

La croce e il bicchiere d'acqua fresca

Le proporzioni del dono

Mt 10,37-42

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: 
«Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. 
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 
Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

Quante volte abbiamo rischiato di pensare che dedicare del tempo, cioè un po’ di vita a Dio corrisponda a perdere tempo, cioè a perdere vita? E se questo “tempo perso” fosse invece “tempo investito”? L’espressione “non è degno di me” è forte, ma ci provoca! Credere non significa regalare a Dio un piccolo spazio, concedergli di “parcheggiare” in un angolino del cuore e della vita. Questo non è all’altezza di ciò che Dio ci offre! Un Credente è messo davanti ad un dono immenso: Dio, in Gesù Cristo, ha dato la vita, tutta la sua vita per ma, per te, per chi la accoglie. Tutto se stesso, senza sconti, senza interessi, senza secondi fini, senza “ritorno di immagine”. Tutto, gratuitamente e definitivamente donato. Davanti ad un amore così smisurato non si può che provare grande stupore… non ci si può che sentire spinti a scomodarsi, a ricalcolare l’importanza delle cose, a ripulire il cuore da tutto ciò che non è essenziale per spalancare in fretta le porte a questo Dio. Un Amore così straordinario e smisurato si accoglie a qualsiasi costo. L’amore di Dio è più importante dei nostri affetti (padre, madre e figli), perché da loro un senso nuovo. L’amore di Dio è più importante delle nostre comodità (prendere la croce) perché sa ridare vita e senso a chi ha perduto l’una e l’altro. L’amore di Dio che si manifesta nella sua parola e nella sua sapienza è più importante della nostra tranquillità, della protezione dei nostri schemi mentali. Per questo vale la pena di accogliere “il profeta” uno che vive una vita scomoda, e la sua parola, una parola scomoda, che stimola, che con pungente concretezza ci spinge ad essere autentici. Ma se in questo scomodarsi sta il segreto per aprire il cuore a Dio e al suo immenso dono, ben venga la scomodità del profeta. L’amore di Dio vale la vita, da senso alla vita, agli affetti, alle fatiche, a tutto! Per questo chi lo conosce non esita a investire tutta la vita nell’amore per Dio. Chi si chiude in se stesso invece rischia di perdersi, di dissolversi nelle proprie paure, nei propri piccoli conti e, in fondo, nella propria impotenza, nel proprio limite umano, nell’inganno del peccato. I conti non tornano mai nell’amore, perché l’amore non si calcola. Chi trattiene per se, si chiude in se stesso e finisce per perdere, perdersi! Chi “perde” perché si apre all’amore e accetta di diventare amore, di donarsi per amore, in realtà ritrova, si ritrova. Nel cuore che si apre all’Amore di Dio tutto trova senso, l’enormità della croce e la ferialità di un bicchiere d’acqua fresca, e nell’essere amati ed amare, per tutto si trova forza. Senza l’amore di Dio invece, tutto è sprecato, perduto.