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sabato 20 luglio 2024

Proprio dove non immaginavi...


 Proprio dove non immaginavi…

 

Mc 6,1-6

 

Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: "Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?". Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: "Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua". E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d'intorno, insegnando.

 

***

 

Se un giorno, All’improvviso, in una qualsiasi riunione di famiglia, un parente del quale non abbiamo molta stima, uno che magari ci dà anche un po’ fastidio, dicesse qualcosa che riguarda Dio, che peso daremmo alle sue parole? Saremmo capaci di giudicarle senza pregiudizi?

E se un giorno un anziano del paese, uno che conosciamo da sempre, che ripete un po’ sempre le solite cose, se ne uscisse con una perla di saggezza che riguarda la vita e la fede, magari con uno stile un po’ antiquato, non avremmo forse la tentazione di non prendere nemmeno in considerazione quelle parole, proprio perché vengono da quella persona? 

 

Nel Vangelo capita qualcosa di simile a questo. C’è un giovane di paese, per alcuni il vicino di casa, che è cresciuto per trent’anni nel silenzio della sua famiglia, facendo il falegname con suo padre. Ad un tratto questo giovane se ne va, tra le perplessità generali. Perché mai abbandonare un’attività avviata? E come interpretare le cose che si sentono dire di lui? Fa il predicatore itinerante, ma a che titolo? frequentato la bottega di suo padre, non un importante scuola rabbinica! Qualcuno dice che girando qua e là ha pure compiuto prodigi, ma chissà se sarà vero… E poi si mette contro agli scribi e ai farisei… ma chi pensa mai di essere? 

 

Probabilmente quando Gesù torna a Nazareth la sua fama lo precede, e con essa tutte le perplessità del caso. La gente del paese pensa che Dio si rivelerà in maniera straordinaria e sorprendente, ma le cose non stanno così. In Israele si crede che il Messia arriverà in maniera vistosa, che verrà dal cielo, in modo da farsi riconoscere da tutti, e invece non accade così. Si crede che Dio si manifesterà tramite qualcuno dalle origini misteriose, e invece Egli diventa uomo a Nazareth, un paesino periferico, con una fama discutibile. 

 

Questa è la tentazione che a volte insidia anche noi. Pensiamo che Dio si manifesti nelle parole penetranti di un predicatore carismatico, scoperto per caso navigando nel web. Pensiamo che incontreremo la potenza di Dio in qualche situazione straordinaria, in un pellegrinaggio, in un segno stupefacente, in una coincidenza impossibile. Pensiamo che Dio si presenti a noi in un modo che colpisce, anzi, in qualche modo ce lo aspettiamo, e in qualche occasione finiamo per pretenderlo. Certo, un pellegrinaggio può essere un’occasione, e una persona nuova può sorprenderci e aprire nel cuore strade nuove, ma non è questo il modo ordinario in cui Dio si manifesta.

 

Dio parla dalla bocca di quel figlio dei vicini che è andato via di casa per un po’, e che ora è tornato in paese con in testa quelli che sembrano solo degli strani grilli. Dio parla con la bocca delle persone che conosciamo, rispetto alle quali talvolta conserviamo pregiudizi. Dio parla in modo ordinario, a partire da chi ci sta accanto. A noi la saggezza di riconoscerlo. A noi la capacità di superare il pregiudizio, di buttare il cuore oltre l’ostacolo del nostro presunto buonsenso, per ascoltare lui proprio là dove desidera rivelarsi. A noi il compito di rinnovarci ogni giorno nell’umiltà, perché alla nostra sapienza si sostituisca nel cuore la sua. 

 

Gesù non insiste davanti alla chiusura dei suoi compaesani. Non forza la mano, non spinge per entrare, non li adula, non cerca parole persuasive per convincerli. Nemmeno però lancia minacce e promette castighi. Continua invece la sua opera con i pochi che gli aprono il cuore, e li guarisce. 

 

Pensiamoci. Che idea abbiamo noi di Dio? Dove e come pensiamo che egli si manifesti nella nostra vita? Quali sono le situazioni e le persone nelle quali cerchiamo il suo volto? Non ci capiti, a causa del nostro pregiudizio, di chiuderci all’incontro con il Signore, di perdere proprio quella Parola che egli rivolgeva a noi. Non ci capiti di cercarlo in alto, lontano, in qualcosa di straordinario, e di perdere la sua manifestazione più vera, quella che avviene nella quotidianità, nel volto e nei gesti delle persone che ci stanno intorno. Lo Spirito Santo invece ci illumini, perché i nostri occhi sappiano riconoscere la sua presenza accanto a noi, e si rallegri il nostro cuore nell’accoglierlo, mentre accompagna da vicino i nostri passi illuminando il cammino.  

domenica 30 giugno 2024

Presenza che valorizza


Lasciar andare per far crescere

 

 

Mc 4,35-41

 

In quel medesimo giorno, venuta la sera, [Gesù] disse loro: «Passiamo all'altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com'era, nella barca. C'erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t'importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

 

***

 

“Non t’importa che siamo perduti?” ecco una delle nostre tentazioni più grosse: pensare che Dio non si importa di noi, non condivide le nostre ansie, non è in pena per i pericoli che affrontiamo, non ha compassione per le nostre sofferenze. La lettura superficiale del brano ci spinge ad un pensiero addirittura peggiore: non è stato forse Gesù a spingere i discepoli alla traversata? Perché mai ora non li aiuta? A che gioco sta giocando il Maestro?

 

La chiave di lettura che ci aiuta a comprendere questo episodio è quella che Gesù stesso ci fornisce: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?” eh si! La fede e la paura sono opposte. La paura può inquinare la fede fino ad alterarla del tutto, e la fede può dissolvere la paura fino a liberarci completamente dalla sua stretta. In realtà la paura serve, ha un compito fondamentale nella nostra vita: ci aiuta a difenderci dai pericoli. Quando però prende il sopravvento, rischia di farci interpretare tutto come un pericolo, e alla fine, di convincerci a rimanere in porto, di spingerci insomma a vivere in difesa. Così rintanati però, finiamo per soffocare. La vita ha bisogno di essere vissuta attivamente, da protagonisti. Ad ogni livello ed in ogni condizione c’è bisogno di mettersi sempre di nuovo in discussione e in gioco. Certo, navigare comporta una certa quantità di rischio, ma in fondo è proprio non navigando che si corre il rischio più elevato, quello dell’asfissia. 

 

Non si può restare in porto bisogna navigare, per questo è fatta una nave. Ecco perché Gesù spinge i discepoli ad attraversare il lago. Ma perché, verrebbe da chiedere, proprio di notte, mentre c’è buio, e proprio quella notte, nella quale una burrasca li avrebbe sorpresi? Le traversate al buio fanno parte della vita, così come ne fanno parte le burrasche, che non sono sempre e del tutto prevedibili. Gesù ci mostra il volto di un Dio che non accende sempre un lampione davanti a noi per rassicurarci, che non sempre toglie di mezzo le burrasche, ma che sempre abita le notti e le tempeste con noi. Va bene, verrebbe da dire, Gesù c’è sulla barca, ma dorme! Non è forse irresponsabile da parte sua? Non sembra che non si importi della sorte dei suoi? Che non partecipi alle loro fatiche? …e se invece quello di Gesù fosse un atteggiamento spinto dalla fiducia? Il Maestro non è un uomo di mare. La sua esperienza è legata alla terra, al legno, alla bottega di suo Padre Giuseppe. Gesù sa che invece, tra i suoi discepoli, è diffusa l’esperienza marinara. Alcuni di loro sono pescatori, e della loro esperienza Gesù si fida. Dio si fida di noi. Conta sulle nostre capacità, sulla nostra esperienza. Sa che abbiamo delle risorse da mettere in campo, ed attende fiducioso che lo facciamo. Gesù si sente al sicuro, conta sull’esperienza dei suoi! Piuttosto è il loro atteggiamento ad essere discutibile. Sanno che il maestro sulla barca, ma vivono come se egli non ci fosse. Conoscono bene la potenza di Gesù, ma contano esclusivamente sulle loro forze fino all’orlo del fallimento. Non è forse questo il vero errore? 

 

Fuori dall’immagine della parabola, anche per noi è così. Dio c’è, ci stimola a giocarci, non ci toglie il buio e la tempesta, le vive con noi. Dio non è assistenzialista, non fa al nostro posto. Forse lì per lì ci piacerebbe, ci farebbe comodo, ma alla lunga sarebbe terribile. Un Dio che spazza via dalla nostra strada ogni difficoltà ci direbbe con i fatti che siamo incapaci, che non valiamo nulla, che senza un “aiutino” non siamo capaci di vivere…  Dio invece ci conosce, ci stima, sa che abbiamo energie e capacità da mettere in gioco, e che è proprio esprimendo le nostre risorse che realizziamo la nostra vita. Per questo c’è, ma non fa l’interventista. La sua presenza serve a renderci più lucidi, a liberarci in ogni momento dalla paura. Lui c’è, e contando sulla sua presenza possiamo sempre di nuovo salpare. Lui c’è, con lui e vale la pena di affrontare ogni burrasca. La tentazione sempre alle porte è quella di ritirarci nelle nostre trincee, per poi ritrovarci a contare solo su noi stessi. Da lì nascono le proteste: “non ti importa che moriamo?”… ma se ci sembra che lui sia lontano, è solo perché, sopraffatti dalla paura, abbiamo vissuto un tratto di strada come se lui non esistesse. Il Maestro però è sempre lì, sulla barca con noi, pronto ad intervenire, sempre disposto a vivere traversate buie e tempeste al nostro fianco. Impariamo allora a vivere alla sua presenza. Impariamo a contare su di lui. Abituiamo il nostro cuore a fare radici in questa certezza: Dio è sulla barca con noi, sempre! Più queste radici saranno profonde, più saremo liberi dalla morsa della paura, liberi di esprimere fino in fondo le nostre risorse, liberi di ricorrere al suo aiuto quando all’orizzonte si addensano nubi di tempesta. Con lui, e non senza di lui sapremo valutare da soli qual è il limite che non conviene oltrepassare, qual è il momento di ricorrere alla sua forza. Con lui, e non senza di lui, saremo davvero liberi, e sperimenteremo la nostra forza insieme alla sua. 

lunedì 17 giugno 2024

L’infinito nel minuscolo


L’infinito 

nel minuscolo

 

Mc 4,26-34

 

Diceva: "Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli m
anda la falce, perché è arrivata la mietitura".

 

Diceva: "A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell'orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra".

 

Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

 

***

 

Quanto ci sembra strano, talvolta, il modo di fare di Dio. Invece che partire dalle cose grandi e solide, ragiona a partire da cose piccole, che ci sembrano insignificanti. Invece che iniziare con qualcosa di vistoso e potente, parte da ciò che è umile e marginale. Non calcola tempi e investimenti, semina e basta. Dio ha una certezza: sa che il seme che sparge non è morto, ma vitale, e questa vitalità certa è una promessa. Il seme infatti può cadere in condizioni che lo faranno morire, ma può anche trovare terreni adatti. Allora germoglierà, metterà radici, spunterà dalla terra. Ciò che è vitale cresce, si espande, fiorisce e porta frutto. Resiste alle avversità, ha la capacità di guarire dalle ferite, di lottare per continuare a vivere. 

 

Ecco com’è il regno. Come un seme, anzi, come un granellino di senape, il seme più piccolo. Ma perché cosi piccolo? Perché insistere sulle sue dimensioni minuscole, quasi insignificanti? Perché quello che importa è la vitalità del seme, non la sua dimensione. Fuori dall’immagine,  il regno dell’Amore, della giustizia, della pace che Gesù è venuto ad inaugurare, non si manifesta in modo vistoso, ma è vitale. Ha in se la capacità di dare vita a quelli che lo accolgono, una vita nuova, resa vitale dal Suo Amore, purificata da ciò che amore non è e che perciò è destinato  a mortificare e a perire. Non è una struttura pesante, imposta dall’alto, una legge forzata nella realtà. Il regno è un semino, talvolta quasi invisibile, però è vitale, e perciò germoglia nei cuori a partire da chi lo accoglie e ci crede. 

 

Si, c’è bisogno di accoglierlo e poi di crederci, non solo di credere. Chi crede, in fondo, si limita ad aderire ad un’idea. Questo non basta. C’è bisogno di mettersi in gioco per questo regno, di investire la vita per accoglierlo e costruirlo, di lasciarsi trasformare dalla sua logica. Dio ci ama, e rende concreto questo Amore donandoci tutto se stesso. Egli depone questo dono come un minuscolo seme nei nostri cuori. C’è bisogno di lasciare mettersi in gioco a partire da questo seme, facendogli spazio per primi, lasciando che affondi le radici nel cuore, che faccia spuntare le foglie e stenda i suoi rami in tutto il nostro essere, che fruttifichi nella nostra vita. C’è bisogno di lasciarsi seminare e poi di diventare seminatori, sempre con cuore grato per il dono ricevuto, sempre senza pretese. Questo seme infatti non risponde ai nostri criteri. Continuerà ad essere un seme piccolo. Continuerà a germinare nei cuori in maniera misteriosa. Continuerà a sfuggire ai nostri progetti, ai nostri calcoli, ai nostri bilanci costo/rendimento. 

 

Per questo anche noi dovremo comportarci come quel contadino. Lui semina, senza l’ansia di ciò che spunterà. Dobbiamo diventare seminatori di granelli di senape. C’è bisogno di imparare a spargere questo Amore del regno nelle piccole pieghe della quotidianità, nel terreno grigio del giorno dopo giorno. Un sorriso, un gesto cordiale, un minuto di orologio dedicato ad ascoltare realmente qualcuno può diventare un seme di Regno. Dare attenzione a qualcuno a cui nessuno presta attenzione, usare una piccola gentilezza uscendo dagli schemi della frenesia, fare un gesto di carità, di cura, anche se nessuno se ne accorge, magari nemmeno il diretto interessato. 

 

Non necessariamente siamo chiamati a fare grandi opere che lascino il segno nel tempo. Di certo dobbiamo seminare nelle nostre giornate semi piccoli, magari minuscoli, ma resi vitali dall’Amore di Cristo che portiamo in noi. Qui sta la nostra speranza, non in quello che progettiamo o prevediamo. Speriamo perchè abbiamo profonda fiducia che il seme germoglierà, come, perché e quando non lo sappiamo, ma non importa. 

 

La nostra speranza viene dalla certezza che la vitalità del seme a volte sarà soffocata o trascurata fino alla morte, ma altre volte invece germoglierà. Dio agisce così, e noi con lui: semina e semina arriverà un cuore che accoglie nella libertà, o un raggio di luce a far germinare un seme gettato anni prima. Semina e semina arriveranno occhi capaci di lasciarsi illuminare dalla luce di questo amore, vite che attendevano da tantissimo di udire parole così colme di senso. E allora bisogna seminare, colmi di speranza, rallegrati dalla gratitudine, resi umili e tenaci dalla sapienza stessa del regno, che ribalta quella umana, che conta su un granello e non su un albero già grande, che non si nutre di chi esibisce grandezza, ma di chi coltiva la vitalità dell’amore spicciolo, quotidiano, e, proprio per questo, grande.  

lunedì 13 marzo 2023

Bisogni e pretese

Alterazioni della fame

Mt 4,1-11

 

In quel tempo Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo.2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane».4Ma egli rispose: «Sta scritto:

Non di solo pane vivrà l'uomo,

ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».

5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti:

Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo

ed essi ti porteranno sulle loro mani

perché il tuo piede non inciampi in una pietra».

7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche:

Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».

8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai».10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti:

Il Signore, Dio tuo, adorerai:

a lui solo renderai culto».

11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.


***

 

Che cosa c’è di male nella fame? Assolutamente nulla, a meno che, ad essa non si aggrappi un tarlo, una malattia deformante: la tentazione. Che dopo il digiuno nel deserto Gesù abbia fame, è perfettamente comprensibile. Normale. Che egli cerchi un modo per soddisfare questo bisogno, è altrettanto ovvio. In quello che il diavolo suggerisce però, c’è qualcosa di più, qualcosa che fa passare il confine tra la ricerca del cibo e il delirio di onnipotenza. 

 

Per comprendere meglio dobbiamo fare una piccola sosta e guardare per un istante con la lente di ingrandimento i nostri bisogni. Avere bisogno di qualcosa significa essere incompleti, non autosufficienti, legati necessariamente a qualcosa che sta fuori di noi. I bisogni sono la manifestazione del nostro limite, del fatto che non bastiamo a noi stessi, che il mondo non gira intorno a noi, nemmeno il nostro mondo. Non possiamo non essere limitati, quindi bisognosi. Ci sono dei limiti che possiamo affrontare e superare, ma ce ne sono altri che caratterizzano in modo permanente la nostra umanità. Non siamo padroni di tutto. Non possiamo avere controllo su tutto. Non possiamo, con le nostre sole forze e conoscenze superare ogni ostacolo, vincere ogni sfida, sconfiggere ogni malattia. Quando cerchiamo di infrangere questo muro, di spezzare i limiti dell’umanità, ci inganniamo di superare noi stessi, in realtà deformiamo il nostro essere. 

 

Il limite dice anche la nostra vocazione originaria: quella alla relazione. Non bastare a noi stessi ci spinge ad uscire, ad aprire gli occhi sulla realtà, ad incontrare gli altri, ed ogni volta dobbiamo decidere chi vogliamo essere. Possiamo comportarci da predatori, mettendo in atto ogni strategia per sottomettere e fagocitare tutto e tutti, oppure possiamo comportarci da esseri umani, capaci di vivere di armonia e di equilibrio, di rispetto e reciprocità, capaci di rispondere alla vocazione originaria: quella di assomigliare al creatore che ha fatto tutto dando vita e non togliendola, offrendo libertà e non imprigionando e sottomettendo, mettendo ordine ed armonia, e vincendo così la violenza del caos.

 

Ecco qual è il problema del suggerimento diabolico: «Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane». Sei davvero figlio dell’onnipotente? Egli ti vuole davvero bene? E allora perché mai dovrebbe lasciarti nel bisogno… no! Usa la tua potenza! Non rispettare la realtà, deformala a tuo piacimento. Non curarti della natura delle cose ma solo della possibilità di servirtene per i tuoi scopi. Non ritardare per nessun motivo la risposta ai tuoi bisogni, alla tua fame. Mangia, a qualsiasi costo. 

Il tentatore suggerisce a Gesù di mettere al centro il suo bisogno, in questo modo però, il bisogno diventa una specie di divinità, un idolo capriccioso, pronto a tradire, deformare, fagocitare tutto e tutti per placarsi temporaneamente. E la prima realtà che questo idolo deforma, è proprio l’identità. Chi risponde in modo compulsivo ai propri bisogni non si comporta più da figlio di Dio, ma da servitore dell’idolo.

 

In qualche modo, questa tentazione descrive il funzionamento di tutte le altre. Che la fame sia di cibo, di potere, di sesso, di successo, di gratificazione… sempre le cose funzionano così. 

 

La strategia di Gesù di fronte al tentatore è chiara: non entra in dialogo e non usa parole sue. Chiude il discorso riferendosi alla Parola di Dio. Lui è vincitore, e noi possiamo vincere la tentazione solo con lui, seguendolo, lasciandoci guidare. I nostri ragionamenti non possono nulla contro l’inganno del nemico. Affidarci alla sua Parola, meditandola e facendola nostra, è l’unica difesa possibile. 

 

L’altra strategia che Gesù stesso ha vissuto, e che la tradizione cristiana ci indica, è quella dell’esercizio. Bisogna esercitare i bisogni a stare al loro posto, a non diventare pretese assolute. Come fare? Con il digiuno, cioè ridimensionando il bisogno della fame, educandolo perché non ci maltratti per essere esaudito e allo stesso tempo diventando forti davanti ai suoi capricci, alle sue pesanti proteste. Il digiuno è come una palestra. Chi si allena fa uno sforzo che non è necessario a produrre un lavoro, ma che è estremamente utile a rinforzare dei muscoli in vista di un lavoro. Così, chi digiuna in modo cosciente dal cibo o da vari altri bisogni della carne e della mente, si esercita a non lasciarsi trascinare qua e là, ad essere fermo, ed esercita questi bisogni a stare al loro posto.

 

Queste strategie hanno in fondo un solo scopo: renderci liberi di scegliere a chi affidare la nostra vita, di decidere in cosa vogliamo investire le nostre energie, di valutare le proposte che abbiamo davanti con lucidità, senza l’annebbiamento che certe smanie gettano davanti ai nostri occhi.

 

Che la quaresima sia per noi tempo favorevole per esercitarci alla libertà seguendo Cristo, confidando nella sua forza, ascoltando la sua Parola.

sabato 4 febbraio 2023

Opere che parlano


Dare sapore senza apparire

 

Mt 5,13-16

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 

«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.

Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

 

* * *

 

Il sale da sapore scomparendo. Nessuno lo vede, e quando c’è in giusta quantità, nessuno lo ricorda. La sua assenza però si nota subito. Nessuno nota la luce, ma gli effetti che essa provoca. Quando è troppo poca, lamentiamo la sua mancanza. Quando c’è ne godiamo concentrandoci su altro, sulle cose che essa illumina, sui colori che mette in evidenza, sulle bellezze e sulle brutture che mette allo scoperto. La fede in Gesù Cristo non ci rende alieni, fuori dal mondo. Ci chiede invece di restare nel mondo con questo stile. Noi non siamo chiamati a mettere in atto delle strategie per diventare visibili, dobbiamo piuttosto impegnarci ad essere significativi. Non ci è chiesto di cercare modalità comunicative per diventare persuasivi e così essere creduti, piuttosto dobbiamo sforzarci di essere credibili. Non è nello stile dei credenti cercare applausi e consensi, c’è piuttosto bisogno di vivere una carità concreta che ci renda efficaci. Non importa se siamo considerati, ma se diventa rilevante la nostra presenza là dove il Signore ci chiama. Dobbiamo girare alla larga dal potere umano e dalle sue tentazioni, ed imparare piuttosto ad esercitare il potere di Cristo, quello di dare la vita. C’è però qualcosa che deve diventare visibile: le nostre opere buone, cioè le nostre opere di Vangelo, guidate dalla Parola del Signore, ispirate e sostenute dal suo Spirito, ricalcate sulle priorità che Gesù stesso ci dona. Egli ha cercato per primi i poveri, i sofferenti, gli emarginati, i peccatori. Se siamo del Maestro lo si capisce da questo, dal fatto che le nostre priorità siano o no simili alle sue, dal nostro agire in modo simile al suo più che dalle nostre idee o dal nostro parlare. Non come singoli, ma come comunità, (Gesù usa il noi, non il tu…) dobbiamo tornare a queste priorità. Questa è la nostra prova del nove. Questa è l’unica strategia per l’annuncio approvata direttamente da Gesù. Non parole convincenti, non slogan accattivanti, non connivenze con i poteri del mondo, non ricerca di plauso e di consenso. C’è bisogno di fatti, fatti di vangelo. Fatti di vita che mostrino la buona notizia di un Gesù Signore incontrato ed amato, creduto e seguito, al quale cerchiamo ogni giorno di consegnare la vita. Fatti di amore gratuito che mostrino che siamo abitati da un amore più grande, sorprendente, potente, il suo stesso amore in noi. Queste opere vedranno gli uomini e le donne del nostro tempo, e non sarà importante se le loderanno, se ce ne ringrazieranno, ma se guardandole apriranno il cuore a Dio, canteranno la loro lode a lui. Ciò che importa è che le nostre opere toccando i cuori li facciano ardere, di quello stesso amore, li spingano a desiderarlo con infinita nostalgia. A noi il compito di essere nascosti, come il sale, ma capaci di esaltare ogni buon sapore, trasparenti, come la luce, ma desiderosi di mettere in luce la verità dell’Amore di Dio, la bellezza di ogni cosa creata, la potenzialità di ogni relazione.

 

domenica 17 luglio 2022

Scegliere per vivere

  

Una certezza
per non disperdersi

 

Lc 10,25-37

 

 

Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

 

 

Qual è la differenza vera tra queste due sorelle? Scontato, si potrebbe pensare: l’una serve e l’altra ascolta. E subito dopo si potrebbe finire in una infinita discussione sul fatto che l’una e l’altra abbiano le loro ragioni e i loro torti, prendendo le parti ora dell’una, ora dell’altra, o cercando di stabilire un equilibrio tra le due. La ricerca di equilibrio tra il servizio di Marta e la contemplazione di Maria è la strada giusta, ma ancora manca il dettaglio fondamentale. 

 

La differenza tra queste due donne la troviamo nelle parole di Gesù. Maria, a differenza di Marta, ha scelto. Ha esercitato la sua libertà, ha individuato la parte migliore ed ha deciso di dedicarle le sue energie e la sua attenzione. Gesù non disprezza il servizio di Marta. La esorta piuttosto a riconoscere che il suo agire è inquinato, imprigionato. Marta vive la situazione tipica di chi, travolto dalla realtà, non riesce a scegliere. Si butta a capofitto in molte cose, perché non sa stabilire tra di esse una priorità di importanza e di tempo. Disperde le sue energie in mille rivoli, apparentemente tutti uguali, che la prosciugano oltre il limite del sopportabile. La opprimono fino a toglierle il fiato (ecco l’affanno) e la mettono in agitazione, ingrediente questo di ulteriore confusione. Chiunque viva una situazione del genere, si sente derubato della vita nella sua bellezza, e perciò cova dentro una rabbia destinata prima o poi ad esplodere, e infatti Marta sbotta con Gesù.

 

La sua protesta sembra spinta da realismo e senso di giustizia, ma Gesù riconosce in essa una malattia. Marta è imprigionata in un caos generato dalla sua incapacità di scegliere. L’esortazione del Maestro la aiuta a riconoscere questa realtà, ad accorgersi che la prigione di fatica nella quale si è infilata, è generata dal fatto che lei stessa non ha esercitato la sua libertà scegliendo.

 

La nostra vita prende forma a partire dalle nostre scelte. Le scelte della vita e quelle più piccole e quotidiane, che confermano e rendono vere quelle grandi. Possiamo scegliere cosa vogliamo fare, ma anche possiamo scegliere come vivere quel che ci capita e che, in qualche maniera, siamo costretti ad affrontare. Per farlo però c’è bisogno che ci affidiamo a colui che garantisce la nostra libertà, a Dio, che ha creato la nostra vita libera. Stare ai piedi di Gesù, come Maria, ravviva e consolida nel cuore una certezza che, se troppo fragile, rischia di essere spazzata via dal ciclone delle cose e della frenesia quotidiana. Stare ai suoi piedi rende salda la certezza che noi siamo figli amati, custoditi, apprezzati, e che egli è con noi nella buona e nella cattiva sorte, per darci la forza di affrontare al meglio ogni cosa e per garantirci che l’esito finale della nostra vita è la pienezza del suo amore. 

 

Questa è la certezza che ci permette di scegliere, e di scegliere la parte migliore, nei grandi incroci dell’esistenza e nelle piccole situazioni quotidiane, evitando la prigione della frenesia e l’affanno del quotidiano. Questa è la certezza che ci fa servire non essendo distolti e dilaniati in mille cose, come Marta, ma essendo piuttosto impegnati a dirigere le nostre energie verso l’orizzonte dell’Amore che il Signore ci indica.

Desideri e reali disponibilità

Quello che bisogna evitare 

Lc 10,25-37 

 Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così». 

Perché mai questo dottore della legge sente il bisogno di giustificarsi? Gesù approva la sua lettura e la sua scelta. Il dialogo con Gesù era cominciato male. Egli non voleva confrontarsi, ma tendere un tranello. La sua risposta però è sincera. Lo studio e la meditazione della legge lo hanno portato ad una risposta: per ereditare la vita eterna è necessario impegnarsi ad amare Dio con tutto se stessi; cuore, anima, forza-beni, mente, e amare il prossimo come se stessi. Gesù è d’accordo. Non c’è bisogno di investire altre energie in discussioni. Bisogna passare al fare, lasciare che la legge dell’amore plasmi la vita. “fa' questo e vivrai”. 

Messa da parte l’iniziale intenzione di inganno la domanda del dottore della legge è più che legittima. La ricerca e il confronto fanno parte della sua vita. Se poi l’opinione del Maestro concorda con la sua, tanto meglio. Che cosa dunque lo spinge a giustificarsi? Proprio il fatto che Gesù conclude con l’esortazione a fare. L’amore non esiste se non come fatto pratico, ma proprio la pratica è il problema. Andare d’accordo sul fatto che l’amore è il più grande dei comandamenti è semplice. Amare in pratica invece è spesso difficile, faticoso, chiede di impiegare se stessi, di scegliere, di rinunciare. Ecco perché questo tale ha bisogno di giustificazioni. Se non era sincera l’intenzione, probabilmente lo è la sua domanda iniziale. Egli vorrebbe ereditare la vita eterna, cioè una vita compiuta. Gli manca però la disponibilità concreta a vivere in pratica facendo spazio a questo dono. 

 La storia che Gesù racconta parla chiaro. Il Sacerdote e il levita sono due personaggi forniti delle giustifiazioni più salde, perché stanno sul piano religioso. Hanno bisogno di rimanere puri non tanto per se stessi ma per continuare a svolgere il loro servizio religioso in favore degli altri. C’è in Israele qualcosa di più inoppugnabile? Probabilmente no. Per Gesù però, anche gli ostacoli religiosi non sono che giustificazioni. L’amore è un movimento di uscita da se stessi, chi si giustifica invece alza tra se e gli altri un invalicabile muro. Il Samaritano agisce per compassione. Si fa vicino, si prende cura di quel tale per il solo motivo che egli ne ha bisogno. Se ne fa carico, paga per lui. 

Sant’Agostino ci insegna a riconoscere in questo Samaritano Gesù stesso, venuto a soccorrere un’umanità che, allontanandosi dalla città santa, quindi simbolicamente da Dio, è incappata in situazioni di morte. Se questo è l’esempio del Maestro, anche noi discepoli dobbiamo comportarci così, e quando siamo assaliti dalla tentazione di giustificarci Gesù ci offre un antidoto. Giustificarsi infatti è l’ostacolo più pericoloso che impedisce al cuore di amare. E il nostro cuore impara in fretta meccanismi sottili e potenti per giustificarsi. Ci fa valutare, emettere giudizi e pregiudizi. Ci fa fare ragionamenti di merito, di buonsenso, di saggio senso della misura. Ci fa stabilire priorità, meccanismi di valutazione, criteri di giustizia. Molte di queste cose possono avere un loro ruolo. La domanda però rimane: quando e quanto ci giustifichiamo per fuggire dall’amore, e dalla cura per l’altro che dell’amore è manifestazione pratica? Ecco l’antidoto di Gesù: “Chi è il mio prossimo” è la domanda sbagliata. Quella giusta è: “chi si è fatto prossimo di quel malcapitato?”. Non dobbiamo fare i conti del diritto degli altri a ricevere il nostro amore, le nostre cure, il nostro soccorso. Dobbiamo piuttosto chiederci se siamo o no disposti ad amare chi ne ha bisogno, senza altri criteri. Non dobbiamo evitare il fratello, ma le giustificazioni che ci impediscono di farcene carico. Non siamo certo noi a salvare il mondo, ma Gesù ci chiede di metterci in gioco. Siamo disposti a farci prossimo? La risposta a questa domanda è una questione di vita (eterna) o di morte!