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lunedì 13 marzo 2023

Bisogni e pretese

Alterazioni della fame

Mt 4,1-11

 

In quel tempo Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo.2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane».4Ma egli rispose: «Sta scritto:

Non di solo pane vivrà l'uomo,

ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».

5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti:

Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo

ed essi ti porteranno sulle loro mani

perché il tuo piede non inciampi in una pietra».

7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche:

Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».

8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai».10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti:

Il Signore, Dio tuo, adorerai:

a lui solo renderai culto».

11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.


***

 

Che cosa c’è di male nella fame? Assolutamente nulla, a meno che, ad essa non si aggrappi un tarlo, una malattia deformante: la tentazione. Che dopo il digiuno nel deserto Gesù abbia fame, è perfettamente comprensibile. Normale. Che egli cerchi un modo per soddisfare questo bisogno, è altrettanto ovvio. In quello che il diavolo suggerisce però, c’è qualcosa di più, qualcosa che fa passare il confine tra la ricerca del cibo e il delirio di onnipotenza. 

 

Per comprendere meglio dobbiamo fare una piccola sosta e guardare per un istante con la lente di ingrandimento i nostri bisogni. Avere bisogno di qualcosa significa essere incompleti, non autosufficienti, legati necessariamente a qualcosa che sta fuori di noi. I bisogni sono la manifestazione del nostro limite, del fatto che non bastiamo a noi stessi, che il mondo non gira intorno a noi, nemmeno il nostro mondo. Non possiamo non essere limitati, quindi bisognosi. Ci sono dei limiti che possiamo affrontare e superare, ma ce ne sono altri che caratterizzano in modo permanente la nostra umanità. Non siamo padroni di tutto. Non possiamo avere controllo su tutto. Non possiamo, con le nostre sole forze e conoscenze superare ogni ostacolo, vincere ogni sfida, sconfiggere ogni malattia. Quando cerchiamo di infrangere questo muro, di spezzare i limiti dell’umanità, ci inganniamo di superare noi stessi, in realtà deformiamo il nostro essere. 

 

Il limite dice anche la nostra vocazione originaria: quella alla relazione. Non bastare a noi stessi ci spinge ad uscire, ad aprire gli occhi sulla realtà, ad incontrare gli altri, ed ogni volta dobbiamo decidere chi vogliamo essere. Possiamo comportarci da predatori, mettendo in atto ogni strategia per sottomettere e fagocitare tutto e tutti, oppure possiamo comportarci da esseri umani, capaci di vivere di armonia e di equilibrio, di rispetto e reciprocità, capaci di rispondere alla vocazione originaria: quella di assomigliare al creatore che ha fatto tutto dando vita e non togliendola, offrendo libertà e non imprigionando e sottomettendo, mettendo ordine ed armonia, e vincendo così la violenza del caos.

 

Ecco qual è il problema del suggerimento diabolico: «Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane». Sei davvero figlio dell’onnipotente? Egli ti vuole davvero bene? E allora perché mai dovrebbe lasciarti nel bisogno… no! Usa la tua potenza! Non rispettare la realtà, deformala a tuo piacimento. Non curarti della natura delle cose ma solo della possibilità di servirtene per i tuoi scopi. Non ritardare per nessun motivo la risposta ai tuoi bisogni, alla tua fame. Mangia, a qualsiasi costo. 

Il tentatore suggerisce a Gesù di mettere al centro il suo bisogno, in questo modo però, il bisogno diventa una specie di divinità, un idolo capriccioso, pronto a tradire, deformare, fagocitare tutto e tutti per placarsi temporaneamente. E la prima realtà che questo idolo deforma, è proprio l’identità. Chi risponde in modo compulsivo ai propri bisogni non si comporta più da figlio di Dio, ma da servitore dell’idolo.

 

In qualche modo, questa tentazione descrive il funzionamento di tutte le altre. Che la fame sia di cibo, di potere, di sesso, di successo, di gratificazione… sempre le cose funzionano così. 

 

La strategia di Gesù di fronte al tentatore è chiara: non entra in dialogo e non usa parole sue. Chiude il discorso riferendosi alla Parola di Dio. Lui è vincitore, e noi possiamo vincere la tentazione solo con lui, seguendolo, lasciandoci guidare. I nostri ragionamenti non possono nulla contro l’inganno del nemico. Affidarci alla sua Parola, meditandola e facendola nostra, è l’unica difesa possibile. 

 

L’altra strategia che Gesù stesso ha vissuto, e che la tradizione cristiana ci indica, è quella dell’esercizio. Bisogna esercitare i bisogni a stare al loro posto, a non diventare pretese assolute. Come fare? Con il digiuno, cioè ridimensionando il bisogno della fame, educandolo perché non ci maltratti per essere esaudito e allo stesso tempo diventando forti davanti ai suoi capricci, alle sue pesanti proteste. Il digiuno è come una palestra. Chi si allena fa uno sforzo che non è necessario a produrre un lavoro, ma che è estremamente utile a rinforzare dei muscoli in vista di un lavoro. Così, chi digiuna in modo cosciente dal cibo o da vari altri bisogni della carne e della mente, si esercita a non lasciarsi trascinare qua e là, ad essere fermo, ed esercita questi bisogni a stare al loro posto.

 

Queste strategie hanno in fondo un solo scopo: renderci liberi di scegliere a chi affidare la nostra vita, di decidere in cosa vogliamo investire le nostre energie, di valutare le proposte che abbiamo davanti con lucidità, senza l’annebbiamento che certe smanie gettano davanti ai nostri occhi.

 

Che la quaresima sia per noi tempo favorevole per esercitarci alla libertà seguendo Cristo, confidando nella sua forza, ascoltando la sua Parola.

sabato 4 febbraio 2023

Opere che parlano


Dare sapore senza apparire

 

Mt 5,13-16

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 

«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.

Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

 

* * *

 

Il sale da sapore scomparendo. Nessuno lo vede, e quando c’è in giusta quantità, nessuno lo ricorda. La sua assenza però si nota subito. Nessuno nota la luce, ma gli effetti che essa provoca. Quando è troppo poca, lamentiamo la sua mancanza. Quando c’è ne godiamo concentrandoci su altro, sulle cose che essa illumina, sui colori che mette in evidenza, sulle bellezze e sulle brutture che mette allo scoperto. La fede in Gesù Cristo non ci rende alieni, fuori dal mondo. Ci chiede invece di restare nel mondo con questo stile. Noi non siamo chiamati a mettere in atto delle strategie per diventare visibili, dobbiamo piuttosto impegnarci ad essere significativi. Non ci è chiesto di cercare modalità comunicative per diventare persuasivi e così essere creduti, piuttosto dobbiamo sforzarci di essere credibili. Non è nello stile dei credenti cercare applausi e consensi, c’è piuttosto bisogno di vivere una carità concreta che ci renda efficaci. Non importa se siamo considerati, ma se diventa rilevante la nostra presenza là dove il Signore ci chiama. Dobbiamo girare alla larga dal potere umano e dalle sue tentazioni, ed imparare piuttosto ad esercitare il potere di Cristo, quello di dare la vita. C’è però qualcosa che deve diventare visibile: le nostre opere buone, cioè le nostre opere di Vangelo, guidate dalla Parola del Signore, ispirate e sostenute dal suo Spirito, ricalcate sulle priorità che Gesù stesso ci dona. Egli ha cercato per primi i poveri, i sofferenti, gli emarginati, i peccatori. Se siamo del Maestro lo si capisce da questo, dal fatto che le nostre priorità siano o no simili alle sue, dal nostro agire in modo simile al suo più che dalle nostre idee o dal nostro parlare. Non come singoli, ma come comunità, (Gesù usa il noi, non il tu…) dobbiamo tornare a queste priorità. Questa è la nostra prova del nove. Questa è l’unica strategia per l’annuncio approvata direttamente da Gesù. Non parole convincenti, non slogan accattivanti, non connivenze con i poteri del mondo, non ricerca di plauso e di consenso. C’è bisogno di fatti, fatti di vangelo. Fatti di vita che mostrino la buona notizia di un Gesù Signore incontrato ed amato, creduto e seguito, al quale cerchiamo ogni giorno di consegnare la vita. Fatti di amore gratuito che mostrino che siamo abitati da un amore più grande, sorprendente, potente, il suo stesso amore in noi. Queste opere vedranno gli uomini e le donne del nostro tempo, e non sarà importante se le loderanno, se ce ne ringrazieranno, ma se guardandole apriranno il cuore a Dio, canteranno la loro lode a lui. Ciò che importa è che le nostre opere toccando i cuori li facciano ardere, di quello stesso amore, li spingano a desiderarlo con infinita nostalgia. A noi il compito di essere nascosti, come il sale, ma capaci di esaltare ogni buon sapore, trasparenti, come la luce, ma desiderosi di mettere in luce la verità dell’Amore di Dio, la bellezza di ogni cosa creata, la potenzialità di ogni relazione.

 

domenica 17 luglio 2022

Scegliere per vivere

  

Una certezza
per non disperdersi

 

Lc 10,25-37

 

 

Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

 

 

Qual è la differenza vera tra queste due sorelle? Scontato, si potrebbe pensare: l’una serve e l’altra ascolta. E subito dopo si potrebbe finire in una infinita discussione sul fatto che l’una e l’altra abbiano le loro ragioni e i loro torti, prendendo le parti ora dell’una, ora dell’altra, o cercando di stabilire un equilibrio tra le due. La ricerca di equilibrio tra il servizio di Marta e la contemplazione di Maria è la strada giusta, ma ancora manca il dettaglio fondamentale. 

 

La differenza tra queste due donne la troviamo nelle parole di Gesù. Maria, a differenza di Marta, ha scelto. Ha esercitato la sua libertà, ha individuato la parte migliore ed ha deciso di dedicarle le sue energie e la sua attenzione. Gesù non disprezza il servizio di Marta. La esorta piuttosto a riconoscere che il suo agire è inquinato, imprigionato. Marta vive la situazione tipica di chi, travolto dalla realtà, non riesce a scegliere. Si butta a capofitto in molte cose, perché non sa stabilire tra di esse una priorità di importanza e di tempo. Disperde le sue energie in mille rivoli, apparentemente tutti uguali, che la prosciugano oltre il limite del sopportabile. La opprimono fino a toglierle il fiato (ecco l’affanno) e la mettono in agitazione, ingrediente questo di ulteriore confusione. Chiunque viva una situazione del genere, si sente derubato della vita nella sua bellezza, e perciò cova dentro una rabbia destinata prima o poi ad esplodere, e infatti Marta sbotta con Gesù.

 

La sua protesta sembra spinta da realismo e senso di giustizia, ma Gesù riconosce in essa una malattia. Marta è imprigionata in un caos generato dalla sua incapacità di scegliere. L’esortazione del Maestro la aiuta a riconoscere questa realtà, ad accorgersi che la prigione di fatica nella quale si è infilata, è generata dal fatto che lei stessa non ha esercitato la sua libertà scegliendo.

 

La nostra vita prende forma a partire dalle nostre scelte. Le scelte della vita e quelle più piccole e quotidiane, che confermano e rendono vere quelle grandi. Possiamo scegliere cosa vogliamo fare, ma anche possiamo scegliere come vivere quel che ci capita e che, in qualche maniera, siamo costretti ad affrontare. Per farlo però c’è bisogno che ci affidiamo a colui che garantisce la nostra libertà, a Dio, che ha creato la nostra vita libera. Stare ai piedi di Gesù, come Maria, ravviva e consolida nel cuore una certezza che, se troppo fragile, rischia di essere spazzata via dal ciclone delle cose e della frenesia quotidiana. Stare ai suoi piedi rende salda la certezza che noi siamo figli amati, custoditi, apprezzati, e che egli è con noi nella buona e nella cattiva sorte, per darci la forza di affrontare al meglio ogni cosa e per garantirci che l’esito finale della nostra vita è la pienezza del suo amore. 

 

Questa è la certezza che ci permette di scegliere, e di scegliere la parte migliore, nei grandi incroci dell’esistenza e nelle piccole situazioni quotidiane, evitando la prigione della frenesia e l’affanno del quotidiano. Questa è la certezza che ci fa servire non essendo distolti e dilaniati in mille cose, come Marta, ma essendo piuttosto impegnati a dirigere le nostre energie verso l’orizzonte dell’Amore che il Signore ci indica.

Desideri e reali disponibilità

Quello che bisogna evitare 

Lc 10,25-37 

 Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così». 

Perché mai questo dottore della legge sente il bisogno di giustificarsi? Gesù approva la sua lettura e la sua scelta. Il dialogo con Gesù era cominciato male. Egli non voleva confrontarsi, ma tendere un tranello. La sua risposta però è sincera. Lo studio e la meditazione della legge lo hanno portato ad una risposta: per ereditare la vita eterna è necessario impegnarsi ad amare Dio con tutto se stessi; cuore, anima, forza-beni, mente, e amare il prossimo come se stessi. Gesù è d’accordo. Non c’è bisogno di investire altre energie in discussioni. Bisogna passare al fare, lasciare che la legge dell’amore plasmi la vita. “fa' questo e vivrai”. 

Messa da parte l’iniziale intenzione di inganno la domanda del dottore della legge è più che legittima. La ricerca e il confronto fanno parte della sua vita. Se poi l’opinione del Maestro concorda con la sua, tanto meglio. Che cosa dunque lo spinge a giustificarsi? Proprio il fatto che Gesù conclude con l’esortazione a fare. L’amore non esiste se non come fatto pratico, ma proprio la pratica è il problema. Andare d’accordo sul fatto che l’amore è il più grande dei comandamenti è semplice. Amare in pratica invece è spesso difficile, faticoso, chiede di impiegare se stessi, di scegliere, di rinunciare. Ecco perché questo tale ha bisogno di giustificazioni. Se non era sincera l’intenzione, probabilmente lo è la sua domanda iniziale. Egli vorrebbe ereditare la vita eterna, cioè una vita compiuta. Gli manca però la disponibilità concreta a vivere in pratica facendo spazio a questo dono. 

 La storia che Gesù racconta parla chiaro. Il Sacerdote e il levita sono due personaggi forniti delle giustifiazioni più salde, perché stanno sul piano religioso. Hanno bisogno di rimanere puri non tanto per se stessi ma per continuare a svolgere il loro servizio religioso in favore degli altri. C’è in Israele qualcosa di più inoppugnabile? Probabilmente no. Per Gesù però, anche gli ostacoli religiosi non sono che giustificazioni. L’amore è un movimento di uscita da se stessi, chi si giustifica invece alza tra se e gli altri un invalicabile muro. Il Samaritano agisce per compassione. Si fa vicino, si prende cura di quel tale per il solo motivo che egli ne ha bisogno. Se ne fa carico, paga per lui. 

Sant’Agostino ci insegna a riconoscere in questo Samaritano Gesù stesso, venuto a soccorrere un’umanità che, allontanandosi dalla città santa, quindi simbolicamente da Dio, è incappata in situazioni di morte. Se questo è l’esempio del Maestro, anche noi discepoli dobbiamo comportarci così, e quando siamo assaliti dalla tentazione di giustificarci Gesù ci offre un antidoto. Giustificarsi infatti è l’ostacolo più pericoloso che impedisce al cuore di amare. E il nostro cuore impara in fretta meccanismi sottili e potenti per giustificarsi. Ci fa valutare, emettere giudizi e pregiudizi. Ci fa fare ragionamenti di merito, di buonsenso, di saggio senso della misura. Ci fa stabilire priorità, meccanismi di valutazione, criteri di giustizia. Molte di queste cose possono avere un loro ruolo. La domanda però rimane: quando e quanto ci giustifichiamo per fuggire dall’amore, e dalla cura per l’altro che dell’amore è manifestazione pratica? Ecco l’antidoto di Gesù: “Chi è il mio prossimo” è la domanda sbagliata. Quella giusta è: “chi si è fatto prossimo di quel malcapitato?”. Non dobbiamo fare i conti del diritto degli altri a ricevere il nostro amore, le nostre cure, il nostro soccorso. Dobbiamo piuttosto chiederci se siamo o no disposti ad amare chi ne ha bisogno, senza altri criteri. Non dobbiamo evitare il fratello, ma le giustificazioni che ci impediscono di farcene carico. Non siamo certo noi a salvare il mondo, ma Gesù ci chiede di metterci in gioco. Siamo disposti a farci prossimo? La risposta a questa domanda è una questione di vita (eterna) o di morte!

lunedì 10 gennaio 2022

Non possiamo dimenticare i Magi

 Luoghi di morte e percorsi
di vita

 

 

1 Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme 2e dicevano: «Dov'è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». 3All'udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. 4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:

6E tu, Betlemme, terra di Giuda, 

non sei davvero l'ultima delle città principali di Giuda:

da te infatti uscirà un capo

che sarà il pastore del mio popolo, Israele».

7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l'avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch'io venga ad adorarlo».

9Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un'altra strada fecero ritorno al loro paese.

 

13Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo». 14Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, 15dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:

Dall'Egitto ho chiamato mio figlio.

 

16Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. 17Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia:

18Un grido è stato udito in Rama,

un pianto e un lamentogrande:

Rachele piange i suoi figli

e non vuole essere consolata,

perché non sono più.

 

 



***

 

Erode è un uomo divorato da un complesso, quello di non essere nessuno. Il lusso e lo sfarzo sfrenato del suo palazzo sono la droga che gli fa scordare la sua paura, ma essa è sempre in agguato. Egli è prigioniero del potere che esercita, che percepisce sempre insidiato e che lo fa vivere di sospetto, di angosciata vigilanza, di trame con altri potenti ai quali offrire consenso e compiacenza in cambio di riconoscimento e legittimazione della sua posizione. Non importa se tutto ciò è a scapito del popolo. La sua ferocia in questo senso è nota. A titolo di esempio, durante il suo regno fa uccidere una moglie e alcuni suoi figli, sospettati di tramare contro di lui. 

La sua paura, lasciata libera di svilupparsi, diventa eccessiva e grottesca, al punto che egli si adombra per un bambino, si accende di un’ira incontrollata perché dei saggi sconosciuti non rispondono puntualmente ai suoi ordini. Alla fine, nel delirio della violenza, ordina la strage degli innocenti, terribile frutto della sua personalità controversa e squilibrata. 

Erode mostra quanto sia pericolosa la tentazione del potere. Essa è spesso frutto di paure nascoste ma potenti. La paura di non contare nulla, o di non contare più, quella di non essere valorizzati, di essere insignificanti. Il timore di fallire, di non ricevere consenso da nessuno, il timore che nessuno si accorga di noi, in fondo della solitudine. E poi il timore che qualche scelta destabilizzi il nostro ruolo, ci porti via la posizione che ci fa sentire qualcuno, metta in discussione l’istituzione che ci legittima. Più è profonda e nascosta la paura, più è spietata la violenza con cui si difende. Non c’è solo la strage degli innocenti. Ci sono silenzi che ammazzano, indifferenze che soffocano, parole che affondano brutalmente nella carne, nella storia, nella rispettabilità delle persone. Ovviamente tutto ciò avviene più spesso in modo, per così dire, pulito, e in nome di quelle che paiono necessità assolute. Una delle attività che questa macchina del potere svolge è infatti quella di autolegittimarsi, di stabilire le necessità che giustificano la violenza del potere, la più terribile delle quali è quella che si riferisce ingiustamente a Dio.

 

Accanto a Erode ci sono altre categorie di persone che in qualche modo ruotano intorno al sistema del potere. 

 

Gli scribi e i capi dei sacerdoti, maestri della scrittura, della legge, delle tradizioni di Israele, e proprio per questo detentori di una grande autorità. La conoscenza però non trasforma la loro vita. In fondo sono prigionieri del sistema, ingranaggi di un meccanismo che ha ancora una volta il potere come motore principale. Individuano correttamente la profezia che parla del nuovo re, ma la loro vita è fortemente ancorata al sistema. Non si muovono. Funzionano da consulenti, stanno nel ruolo, nei confini del sistema che offre loro in cambio prestigio e privilegio.  

Nel testo di Marco Gesù riserverà loro queste parole taglienti: “…amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere.” (Mc 12,38-40) Parole che si attualizzano e si commentano da sé. 

 

La gente di Gerusalemme non detiene forse poteri particolari, ma uno status. Sono Giudei, eletti nel popolo eletto. Vivono dentro un sistema e non vogliono vederlo turbato. Forse qualcuno inizia a percepirlo stretto e sterile, forse a qualcuno sembra talvolta iniquo, forse c’è chi ne vede la deformazione, l’inquinamento, ma guarda altrove, oppure non sente di avere la forza o l’autorità di cambiarlo, o crede che non sia il suo compito.

 

Meditando su queste figure, riconosciamo facilmente in filigrana certe pesantezze del nostro mondo, ma anche della nostra chiesa. Certe posizioni soffocanti, certe abitudini infeconde, certi schemi sterili che però ci si ostina ad applicare, certe giustificazioni che sembrano ineccepibili ma alle quali ormai nessuno crede. 

 

Stefano da Verona -
Adorazione dei Magi
La vicenda dei magi ha molto da insegnarci in questo senso. Se dovessimo soffermarci sulla figura di questi dottissimi uomini, sulla loro provenienza e stato sociale, ci perderemmo in un viaggio affascinante, ma non indispensabile a comprendere il messaggio del testo. Ci basta sapere che i magi sono pagani, forniti di enorme cultura e sapere di ogni genere, per questo autorevoli e potenti presso i popoli nei quali vivono e operano. Nella descrizione di Matteo, i magi mostrano subito dei tratti interessanti.

 

Prima di tutto l’evangelista li descrive in viaggio, l’atteggiamento di chi è alla ricerca, di chi non si sente completo, di chi ha sete di altro, di qualcosa di più grande. Il viaggio è l’icona della vita di ogni uomo, la paralisi turbata di Gerusalemme invece assomiglia più alla morte. 

 

Si scopre che a metterli in cammino è stata la scoperta di una nuova stella. Scoperta condivisa, visto che viaggiano insieme. Questi saggi conoscono bene il cielo, lo scrutano anche perché credono che esso influenzi la vita degli uomini. L’astrologia, cioè la divinazione del cielo, è chiaramente condannata dalla bibbia (si veda ad esempio Lev. 19,26; Dt 18,10; Is 8,19), ma è evidente che questi tali non vivono della pretesa di scoprire il futuro nelle stelle. Prova ne è il fatto che, giunti a Gerusalemme, chiedono lumi ai saggi locali. Il loro scrutare il cielo assomiglia ad una sincera ricerca di un di più, ad un desiderio profondo di qualcosa di più grande, che troveranno soddisfatto nell’incontro con il Dio bambino.

 

La loro guida definitiva è comunque la Parola di Dio, che gli scribi citano senza lasciarsi coinvolgere. Loro invece la ritengono venerabile ed autorevole, tanto da mettere in pratica senza esitazioni quello che hanno sentito. Vanno a Betlemme, e vedono la stella. Scoprono la meta del loro cammino e sono inondati di una grandissima, autentica gioia. 

 

Giunti alla grotta, adorano e donano. Si inginocchiano davanti ad un bambino, ma riconoscono in lui Dio (incenso), il nuovo Re (oro), nuovo perchè ama fino a donare la vita (mirra). Si inginocchiano, come a riconoscersi piccoli e indegni, ma non fuggono. Il cuore suggerisce loro che non c’è da temere. Colui davanti al quale stanno è venuto nel mondo per amare. Non compete in fatto di potere con Erode né con i potenti della terra. Il suo potere consiste nell’amare fino a dare la vita. 

 

Un tale incontro non può che cambiare la vita di chi lo vive. Ora sono pieni di lui, della sua luce, di quella sua grandezza che sta nella piccolezza al punto che riconoscono la sua voce. Sono avvertiti in sogno, non tornano più dai potenti, non corrono il pericolo di restare invischiati nelle loro trame stantie, mortali. Per un’altra strada, verso una vita nuova, tornano al loro paese. 

 

Nella vicenda dei magi sta una luce splendente che ci indica il cammino. Se il loro desiderio è anche il nostro, se il loro cercare qualcosa di più grande che riempia il cuore abita anche il nostro cuore, allora il loro viaggio sia il nostro viaggio. Senza sconti e senza timori, senza remore e ripensamenti. Mettiamoci alla ricerca del nuovo Re, venuto a regnare in un modo nuovo, cioè dando la vita per amore. Cerchiamolo, sostenuti si dalla stella del desiderio, ma anche istruiti e guidati dalla saggezza della parola. Camminiamo sempre di nuovo, con gioia e trepidazione, fino all’incontro con lui. Mettiamoci in ginocchio davanti a tanto dono. Immergiamo la nostra piccolezza nell’immensità del suo Amore, certi che non saremo perduti ma custoditi, non schiacciati ma riempiti di gioia profonda, non mortificati ma abitati da una vita nuova. Verso questo incontro si diriga sempre il nostro viaggio, e da questo incontro riparta, sempre di nuovo per un’altra strada, sempre di nuovo convertiti, illuminati, riempiti di speranza e forza. La sua luce ci guidi ad evitare le trame violente dei potenti, senza combatterle inutilmente, rischiando di scendere a patti con loro. L’esempio dei magi ci renda autentici costruttori del regno, mai adombrati dagli erode e dagli scribi di oggi, mai esasperati e vinti dall’immobilismo sterile e triste di certi gruppi di credenti. Sempre pieni invece di quella saggia leggerezza che porta a cercare, sperare, costruire, seminare, sempre di nuovo coscienti che l’Emmanuele, il Dio con noi è trampolino di lancio e meta di ogni nostro pellegrinare, faticare, soffrire, amare.

giovedì 30 dicembre 2021

Natale, lo stile di Dio che sorprende

Uno splendore che dirada ogni tenebra

 


 

***

 

Nessuno ha mai visto Dio. (Gv 14,18) Molte volte ci fermiamo qui. Rischiamo di vivere come se l’incarnazione non fosse mai avvenuta, come se Dio fosse chiuso nella sua distanza, nel suo mistero. Rischiamo di vivere come se non potessimo sapere nulla di lui, come se dovessimo accontentarci di farci un’idea, e questo è quanto mai pericoloso. Le nostre idee di dio sono traballanti, lacunose, deformanti. Hanno a che fare con i nostri pregiudizi e le nostre paure. Proprio le paure spesso ci spingono ad immaginare un dio severo, che ci misura, che ci giudica. Temiamo le nostre fragilità, le nostre inadeguatezze, i fallimenti; queste paure diventano presto giudizi negativi su noi stessi, ed altrettanto presto attribuiamo questi giudizi a Dio. Temiamo il confronto con la realtà, con gli altri, e le paure diventano giudizi, giudizi divini.

 

Viviamo in un mondo che vive la logica del più forte, del più furbo, del più potente. Al tempo della nascita di Gesù, Cesare Augusto aveva prodotto disagio e scompiglio imponendo con il potere il censimento. Oggi i poteri in atto sono altri, ma sono altrettanto capaci di pesare sulle nostre vite. In modo subdolo deformano il nostro punto di vista, la lucidità dei pensieri. Creano bisogni e indirizzano scelte. I “Cesare Augusto” e i “Quirinio” di oggi hanno il nome di poteri economici, di idee di tendenza, di influencer in vista. Non muovon più le masse con editti, ma con la logica delle tendenze, dello stato sociale, delle mode, dei “mi piace”, degli standard, dell’adeguatezza, della competizione  spietata, della prestazione.

 

Viviamo in questo contesto, e rischiamo sempre di esserne condizionati. Siamo immersi in logiche di potere che finiamo per credere giuste e dalle quali ci facciamo giudicare. Ci sentiamo buoni o cattivi a partire da criteri che ci sono imposti, che non valorizzano la nostra originalità, anzi la costringono e la mortificano dentro criteri che non ci appartengono. Siamo sballottati da potenti e finiamo per desiderare noi stessi di diventare potenti. Vogliamo avere tutto sotto controllo. Quello che c’è dentro di noi e quello che sta fuori. Viviamo di ansia per quello che non raggiungiamo e non siamo, e nel frattempo dimentichiamo che, dentro di noi, impastato con i limiti, c’è un tesoro prezioso, originale, che Dio ha dato a ciascuno e che attende, talvolta purtroppo inutilmente, di germogliare. 

 

Così travolto da queste dinamiche, il mondo non si importa di Dio. La vicenda di Maria e Giuseppe sembra del tutto marginale. Cos’è una giovane coppia di fronte a tutto il resto? Sono giovani, che pensino loro a sé stessi. Gli abitanti di Betlemme sono distolti da ben altre occupazioni e preoccupazioni. C’è da far polemica sul potere dei romani, che divide gli uni dagli altri, quelli che lo vorrebbero cavalcare da quelli che lo vorrebbero combattere. C’è da cogliere l’occasione del censimento per raggranellare qualche quattrino. C’è frenesia, paura, rabbia, fastidio, e chissà cos’altro nel cuore della gente. Di certo non c’è posto, per null’altro. Così il Figlio di Dio nasce in una situazione di perfetta inadeguatezza, di totale marginalità, fuori dai giochi della storia, dalle vicende che contano secondo gli uomini. Il Verbo si fa carne, ma i suoi non lo accolgono (Lc 2,7 e Gv 1,11). Così, la vicenda di Maria e Giuseppe potrebbe apparire più che altro come una disavventura, ma che Dio è quello che dopo averli chiamati, dopo aver affidato loro un compito, li abbandona nella disavventura?

 

Potrebbe essere una domanda fondamentale del Natale. Che Dio è mai questo? È un Dio che si può conoscere solo se egli stesso si rivela a noi (Gv 1,18). Possiamo conoscere questo Dio solo se, come i pastori, accettiamo di metterci in viaggio. Il segno che l’angelo offre loro è piccolo, del tutto ordinario, potrebbe sembrare banale e insignificante. Un bambino. Tenero per carità, ma nemmeno conoscono i suoi genitori, e poi quanti bambini nascono sulla terra? Non sarà come tutti gli altri, fragile, muto, bisognoso di tutto? Sarà forse lui a fare la differenza? Eppure i pastori si mettono in cammino, e scoprono che è proprio così. Un bambino fa la differenza. Dio ha deciso di entrare nella storia del mondo facendo la differenza. Per questo Non si mette in competizione con i potenti e non esercita un potere come loro lo esercitano. Non fa clamore e non cerca consenso, Si fa spazio silenziosamente a partire da chi lo accoglie. Non fa guerra a chi lo rifiuta. Non forza, non fa pubblicità ne “campagna elettorale”. La porta attraverso la quale Dio entra nella storia è il cuore di chi lo accoglie, in silenzio. Egli viene a compiere la promessa di bene che c’è nel cuore di ciascuno. Non magicamente, ma accompagnando il nostro cammino umano con la sua potenza divina. La presenza di Dio, per chi la accoglie, ha le sembianze di una vita nuova, che come un bambino è fragilissima eppure ricca di potenzialità. Chi se ne prende cura la vede crescere giorno dopo giorno, e piano piano si accoglie dello straordinario che sta in quella vicenda intima, apparentemente così nascosta. Dio cambia il mondo a partire dal cuore di chi lo accoglie. Non fa salvezza lontano, in modo che la si debba rincorrere, guadagnare, meritare. Lui è salvezza, dentro la vita concreta, non conta se essa è limitata e marginale, anche la mangiatoia di Betlemme lo era.

 

C’è un potere che Dio porta con se, ma per consegnarlo a noi. È il potere di diventare figli, di nascere di nuovo, non dalla carne e dal sangue, ma dal suo Amore fecondo (Gv 1,12-23). Chi accoglie è generato di nuovo. Chi fa spazio è inondato di nuova vita. Rinasce chi crede a lui, chi accetta di abbandonare le sue idee e i suoi idoli per mettersi in viaggio verso di lui. Non c’è bisogno di nessun requisito iniziale. Non importano i giudizi, né quelli del mondo né quelli durissimi che ciascuno pronuncia per se stesso. Non c’è buono o cattivo, adeguato o inadeguato, sufficiente o insufficiente. Non c’è ricco o povero, saggio o ignorante. Non c’è vicino o lontano, santo o peccatore. Davanti al Verbo eterno di Dio che si fa carne, davanti all’annuncio dell’Angelo ai pastori, c’è solo chi accoglie e chi rifiuta. Nella vita di chi lo accoglie, Dio nasce e fa germogliare una vita nuova che, come quella di un bambino in fasce, avrà bisogno di essere alimentata e custodita, ma che viene data in dono senza nessuna discriminazione. Anzi, Come un giorno il Verbo si fece carne in un lembo emarginato dell’umanità, anche oggi egli nasce in quell’angolo del cuore dove abbiamo nascosto le nostre debolezze. Egli viene ad abitare in noi là dove ci sentiamo inadeguati, non all’altezza. C’è posto per lui nel cuore proprio dove ci sono le nostre fragilità, i nostri limiti, la paura di non farcela, di non riuscire a vivere quello che vorremmo. C’è spazio per Lui che salva là dove il potere ci tiene prigionieri, ci mortifica, ci causa ribellione, frustrazione e tristezza, dove il passato ci tormenta con le sue ferite e le sue conseguenze che sembrano definitive. C’è un alloggio per lui là dove ci assale la paura di non trovare la strada della nostra realizzazione, o di
rovinare tutto a causa dei nostri errori, della nostra piccolezza.

 

Mettersi in viaggio dunque, ed accogliere, ma non basta. Una vita che nasce porta con sé un potenziale immenso che si dispiega nel tempo, che ha bisogno di cura e pazienza. Un neonato è fatto per diventare uomo, e molto di quel che sarà è del tutto imprevedibile per chi lo guarda. Così, Maria custodisce e medita. Custodisce, perché la frenesia delle cose non si porti via un dono così grande. Medita, e così accoglie sempre di nuovo il senso della sua vita. Chiamata ad essere madre di Dio, diventa madre giorno dopo giorno, vivendo in profondità la relazione con quel Dio bambino che cresce accanto a lei. La sua vocazione è impastata di fedeltà, di perseveranza. La sua identità le viene sempre di nuovo dalla relazione con quel bimbo. Così per noi. Giorno dopo giorno, sempre di nuovo in cammino, sempre di nuovo intenti ad accoglierlo, vediamo la sua vita crescere in noi, accogliamo da lui la nostra identità. Accogliendo sempre più pienamente lui diventiamo sempre più pienamente noi stessi.

 

Che il mistero del Natale ci possieda. Che non si spenga in noi l’eco di quella voce: “Oggi è nato per voi un Salvatore…”, e ci spinga sempre di nuovo a metterci in cammino verso di lui. Che la luce del verbo, che è la nostra vita, continui a risplendere in noi, e diradi nel nostro cuore quella la tenebra che ricopre la terra, quella nebbia fitta che avvolge i popoli (Is 60,2) e ci mostri la via della nostra concreta, autentica salvezza. 

sabato 25 dicembre 2021

Avvento

 Sulla soglia di un mondo nuovo

ripensando ai vangeli del tempo di Avvento



I discepoli di Gesù vivono sulla soglia della porta che il Signore ha spalancato per loro. Sono immersi nella realtà, ne patiscono le contraddizioni, ne godono le risorse, ne soffrono la decadenza, ne colgono le occasioni, ne sperimentano il travaglio. Il loro sguardo però, oltre la porta, contempla la promessa del regno. Anzi, proprio perché vivono sulla soglia, non solo contemplano, ma anche pregustano la pienezza e l’eternità, e inebriati da essa vivono ogni cosa con uno spirito diverso, nuovo.


I credenti vivono in un’umanità che ha respinto Dio, lo ha reso insignificante, lo ha dimenticato come si dimentica un vecchio ricordo imbarazzante. L’avventura dell’uomo senza Dio però, si rivela sempre di nuovo drammatica. Senza di lui, nulla costituisce un punto di riferimento stabile che resista alle avversità della vita e alla morte. Nulla garantisce salvezza dentro i limiti dell’umanità. Senza di lui nessuna morale regge davvero, nessuna prospettiva riempie davvero il cuore. Dentro questo smarrimento, alcuni si illudono pensando che il loro potere economico e sociale li salvi e li compia.   Alcuni vivono in un rassegnato fatalismo. Altri ancora consumano un eterno presente, succhiano con smania relazioni ed eventi, sempre ebbri e sempre vuoti, sempre gratificati e frustrati ad un tempo. 


Senza Dio l’umanità è travolta dalla sua caducità, la finitezza delle cose, di tutte le cose. Tutto passa, il cielo e la terra passeranno. Passano le strutture degli uomini, le loro organizzazioni. Entrano in crisi le tradizioni, le costruzioni, i progetti. Le istituzioni più solide e fondate, anche quelle religiose, prima o poi vedono la crisi e passano. Tanto più hanno la pretesa di essere stabili, eterne, tanto più fanno danni quando la loro natura, fisiologicamente caduca, le fa scricchiolare, vacillare, implodere.  Chi si prodighi a tenerle in piedi, ottiene lo stesso risultato che si avrebbe tentando di rianimare un cadavere. Davanti a questo panorama, a questa ciclica distruzione, qualcuno annunciano sventure, disgrazie che sono castighi, orizzonti angosciati di giudizio severo, di condanna, di eterna pena. Qualcuno cerca di darsi certezze annunciando l’arrivo della fine del mondo, o identificando in un luogo o in una persona l’arrivo del regno o il ritorno del Signore. Le parole di Gesù sono chiare: “nessuno conosce il giorno e l’ora”. E ancora “vi diranno: “eccolo qui… sono io…” non credeteci, non andateci”. 



I discepoli di Gesù vivono intensamente questa vicenda e ne patiscono il travaglio, ma non vi restano imprigionati perché abitano sulla soglia, vigilano. Stanno svegli non perché temono che la decadenza del mondo , ma perché non vogliono esserne inquinati e travolti. Vogliono custodire e rinnovare ogni giorno la forza di sfuggire a questi inganni, alle paure, alle finzioni che impoveriscono e impediscono la vita, al mito dell’uomo autosufficiente, gonfio della propria illusoria autonomia o arrabbiato contro il suo eterno vuoto, ma sempre intento ad esorcizzare la morte. I credenti non temono di morire, ma di non riuscire ad accogliere la pienezza del dono di Dio, di non vivere in maniera autentica e compiuta. Stanno svegli non come chi, a causa dell’angoscia o della smania, è stato abbandonato dal sonno. Nemmeno però dormono il sonno incosciente e presuntuoso di chi pensa di bastare a se stesso. La loro vigilanza è a tratti faticosa, ma serena, attende l’incontro con l’amato, il compiersi di un amore che già li tiene in vita, ma che promette un orizzonte sempre più grande e che si compirà all’arrivo dello sposo.


Gesù Cristo è venuto a portare salvezza. Egli invita i suoi discepoli a non pretendere di incasellare il tempo e la storia. Arrovellarsi cercando di stabilire il giorno del giudizio e della fine è una diabolica perdita di tempo. Piuttosto i discepoli approfondiscono la relazione di fiducia con il loro salvatore. Mentre il mondo vacilla, mentre le sue strutture implodono, mentre avanza la sua cultura, fatalmente segnata dalla morte, i credenti  si alzano in piedi e levano lo sguardo al di la della soglia, oltre la porta che fa loro contemplare il regno. Essi non sono preda della paura, non temono, confidano nel loro Signore. Non hanno la smania di conoscere il futuro, sanno che esso è nelle mani del Salvatore, e che uniti a lui sapranno affrontare ogni evento.


Davanti alle alterne vicende della storia, i credenti non fuggono, non cercano qualche tecnica per annebbiare i sensi, per proteggersi in una bolla ovattata di inconsapevolezza. Non si perdono in esagerazioni e in ubriachezze. Restano presenti e lucidi perché sanno che proprio lì, dentro la storia concreta il Signore viene loro incontro. Egli è presente, e i suoi non vogliono rischiare di essere assenti, di disertare l’incontro.  Quella del Signore è una presenza dinamica, egli arriva, sempre di nuovo. Passa e mette in moto il cammino, lo orienta, lo rinfranca. Si presenta in una parola, nel volto di un fratello, in una ferita da sanare, in una fatica da leggere con speranza. Per questo è importantissimo, irrinunciabile, ma non sufficiente vivere di appuntamenti saltuari (quello ad esempio dei sacramenti). I credenti vegliano per essere sempre presenti, sviluppano una particolare sensibilità alla sua voce per cogliere ogni soffio del suo passaggio, ogni piccolo segno del suo sorprendente farsi vicino. 


I discepoli di Gesù non si accontentano però di attendere, di vegliare, di cercare la presenza del Signore. Essi anche agiscono. Sanno bene che il loro impegno per la giustizia non basta, non basta la loro carità, non è sufficiente il loro impegno, ma questo non ferma il loro impegno. Essi fanno tutto quello che possono senza disperare, senza provare disillusione o senso di fallimento. Lavorano sapendo il Signore compie la loro fatica. Misurare i risultati è troppo poco per loro, essi vivono proiettati nella causa del regno che va ben oltre i conti degli uomini, anzi, talvolta li stravolge. Non contano solo sulle loro forze, le mettono in campo con generosità e dedizione attendendo il più forte, colui che porta la salvezza. 

I discepoli del Signore vivono nel mondo, ma hanno accesa nel cuore la fiamma viva di una promessa che si compie nell’eternità. Sono saldamente ancorati tanto alla terra quanto al cielo. Vivono nell’intimità con lo sposo l’anticipo del paradiso, e portano nella concretezza della quotidianità la sua luce, la sua speranza. Pregano, vegliano, lavorano,  si impegnano nelle umane attività, soffrono, consolano, camminano, accolgono e patiscono rifiuto, piangono e cantano, ma sempre nel loro cuore vi è un’invocazione, che è domanda, ma muove da una certezza, è il grido sommesso e incessante: “Maranatha, vieni Signore Gesù”.