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domenica 8 novembre 2020

A immagine di chi?

 Realtà limpida, occhi torbidi.

 

Mt 22,15-21

 

 

In quel tempo, 15 i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo Gesù nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di' a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: «Questa immagine e l'iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».



La realtà è semplice. Sulla moneta c’è l’effigie di Cesare, se l’hai tra le mani, vuoi dire che, in modo più o meno pacifico, accetti quello strumento e lo usi, quindi in qualche modo devi riferirlo a chi lo ha prodotto: Cesare appunto. 

Tramite questa questione pratica però, gli avversari di Gesù vorrebbero trarlo in inganno. Se afferma il dovere di pagare le tasse, si metterà contro la gente, e contro i farisei, che odiano l’idea di doversi sottomettere economicamente al popolo di Roma, l’invasore che ha privato il popolo eletto della sua libertà. Se Gesù dovesse contestare il pagamento delle tasse si metterebbe contro gli erodiani, verrebbe classificato come un rivoluzionario pericoloso, si schiererebbe, tra l’altro, dalla parte dei farisei. 

Lo sguardo degli avversari di Gesù non è limpido. Sono preoccupati di ordire tutte queste trame non di conoscere la risposta alla domanda. Non si importano della sostanza, ma del funzionamento della loro trappola. 

Il Maestro li riporta ai fatti. La realtà è semplice, la moneta è di Cesare, e a lui si debbono riferire gli “effetti” che questa moneta produce. Gesù ci tiene però a sottolineare un fatto ben più importante. Se la moneta si può ricondurre a Cesare grazie all’immagine che riporta, ben più importante è ricordare che l’uomo è immagine di Dio, e quindi tutta la sua vita è da ricondurre a lui. 

Ma gli avversari di Gesù si sono ricordati di questo? Oppure se ne sono completamente scordati, preoccupati come sono di mascherarsi (ipocriti), affannati come sono a difendere le proprie ragioni invece che interrogarsi sulla realtà. Il loro cuore è spinto dal male, e di questo davvero dovrebbero essere preoccupati, molto più che delle tasse.

Ciascuno di noi è immagine di Dio, ma quante volte non riconosciamo la nostra origine perché siamo offuscati dal male, preoccupati di sostenere le nostre maschere, di controllare la realtà perché si volga a nostro favore? E intanto, perdiamo contatto con l’unica vera nostra certezza: l’Amore del padre che ci custodisce!

Il regno è una festa!

 Partecipare con tutto se stessi

 

Mt 22,1-14

 

 

In quel tempo, 1 Gesù riprese a parlare con parabole ai capi dei sacerdoti e ai farisei, e disse: 2«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. 3Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. 4Mandò di nuovo altri servi con quest'ordine: «Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!». 5Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8Poi disse ai suoi servi: «La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». 10Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l'abito nuziale. 12Gli disse: «Amico, come mai sei entrato qui senza l'abito nuziale?». Quello ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti». 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».



Fare festa insieme perché ancora una volta l’amore unisce, da  forma e senso alla vita, la rende feconda. Il regno dei cieli è questo. Una condizione di relazioni nuove, a partire da quella con Dio. Proprio Lui si presenta come il Dio dell’amore, che ama, che propone l’amore come legge per la vita. 

Qualcuno, questo regno, lo rifiuta per motivi materiali. "Amore? Ho altro da fare, devo badare ai miei campi, ai miei affari, quelli si determinano la vita”. Ragionamento triste, ma così radicato in qualche cuore, che non si cura più di questo amore, di questo invito. Qualcuno lo rifiuta persino con violenza, come se questo amore fosse un pericolo un’insidia. 

Allora l’invito si allarga, si estende. Tutti quelli che vogliono festeggiare le nozze sono invitati. Tutti quelli che sono affascinati da questo regno, che sentono accendersi una scintilla nel cuore per questo amore, tutti siano chiamati alla festa. Si inviti la gente ai crocicchi delle strade, la dove si cammina, si investe la vita, si fanno scelte. Là risuoni l’invito: “Venite alla festa, venite a condividere il miracolo dell’amore che regna.”. Qualcuno si lascia coinvolgere, e poi altri, e altri ancora. La sala si riempie. 

Come in ogni festa nuziale, all’ingresso si distribuiscono abiti adeguati. Li si prestano, perché nessuno ne sia sprovvisto. Il re però vede un commensale senza l’abito di nozze. Lo tratta da amico, gli chiede spiegazioni, probabilmente con la disponibilità a riparare, se quella mancanza dipendesse dal fatto che, ad esempio, sono finiti i vestiti. Quell’uomo però ammutolisce colpevole. Sa bene che quella situazione è solo il frutto della sua trascuratezza. 

Come si può andare ad una festa, ma senza il desiderio di condividerne la gioia? Come si può approfittare di un banchetto infischiandosi del motivo per cui viene offerto? Come si può immaginare di sedere alla tavola del regno, ma di non preparare il cuore a quell’amore, a quella bellezza, a quel grande dono? 

Quante volte ci capita di partecipare al banchetto del regno senza indossare l’abito nuziale? Quante volte viviamo i sacramenti, ascoltiamo la Parola, ma senza aver allargato il cuore con la forza del desiderio, perché accolga l’Amore? Vivere in modo stanco e trascurato l’incontro con il Signore, la partecipazione al suo regno, è davvero triste, e rischia di trascinarci un giorno nell’invidia di chi stride i denti per l’occasione perduta. Lo Spirito ci aiuti invece a cogliere questo grande invito, a desiderarlo, a preparare il cuore ad accoglierlo, perché dell’Amore che da sostanza al regno, sia piena tutta la nostra vita.

Una logica sorprendente e vincente

 

Scarti preziosi

 

Mt 21,33-43

 

 

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: 33«Ascoltate un'altra parabola: c'era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 34Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. 35Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. 36Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. 37Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: «Avranno rispetto per mio figlio!». 38Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: «Costui è l'erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!». 39Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. 40Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». 41Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». 42E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: 

La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata la pietra d'angolo;
questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi?

43Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti.




“Quei malvagi! Li farà morire miseramente!” Ecco la logica degli uomini: eliminare i malvagi. Rispondendo in questo modo però, gli interlocutori di Gesù condannano loro stessi senza rendersene nemmeno conto! Proprio loro infatti, fanno parte di quel popolo che ha rifiutato Dio, che alla sua richiesta di accoglienza gli ha sbattuto la porta in faccia. Proprio loro fanno parte di quella schiera di uomini che hanno soffocato la voce di Dio, che parlava loro per mezzo dei profeti. Proprio loro fanno parte di quel mondo che ha preferito costruirsi un Dio comodo, su misura, manipolabile secondo gli interessi di alcuni, e proprio per questo hanno respinto il Dio vero. 

Il rischio in realtà, è quello da secoli. Proprio chi ha ricevuto i doni più grandi da parte di Dio, è tentato di accomodarsi nella situazione e di rifiutare colui dal quale tutto proviene. Siamo tentati di trasformare tutto in proprietà da difendere. La Chiesa, la comunità parrocchiale, un servizio, un gruppo, un’attività, tutto rischiamo di abitare dimenticando che nulla è nostro, che ogni cosa, compresa la stessa vita, è dono di Dio. Rischiamo di lasciarci prendere allora da una certa violenza, che se non uccide, almeno esclude, mette fuori a suon di ostilità, o peggio di falsità e di calunnie. 

Davanti a tutto questo, Dio non si vendica, non castiga. Ricostruisce. Solo lui ha il potere di farlo, e lo fa in modo del tutto sorprendente, a partire dalla pietra scartata. Gesù è questa pietra, scartata dai costruttori ma divenuta testata d’angolo di un edificio nuovo. Contribuiranno a costruire questo edificio coloro che lo riconosceranno come unico riferimento, come unica certezza. Coloro che non si attaccheranno alla vigna, ma a lui, non alle cose, alle istituzioni, alle legittimazioni, ma a lui, la pietra angolare. Questo è il popolo nuovo, e solo così vi si appartiene, accettando la logica di un Dio che costruisce sempre di nuovo a partire da chi, anche sentendosi scartato, però si affida a lui, Cristo, Pietra angolare.

sabato 7 novembre 2020

Mascherati o trasformati?

 Autenticità, porta della conversione

 

Mt 21,28-32

 

 

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: 28«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: «Figlio, oggi va' a lavorare nella vigna». 29Ed egli rispose: «Non ne ho voglia». Ma poi si pentì e vi andò. 30Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: «Sì, signore». Ma non vi andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli.


Non possiamo accettare l’immagine di un figlio che sbatte in faccia al padre un’affermazione così secca: “non ne ho voglia”. Sembra davvero senza motivazioni, fuori luogo. Avrebbe almeno potuto essere un po’ più garbato. D’altra parte però, la nostra mentalità ci porta a dire che alla fine conta il risultato. Costui è stato sfacciato, ma alla fine ha fatto il lavoro. 

Quello che Gesù mette in luce però, ha a che fare con il percorso di questo tale, che manca completamente nell’esperienza del fratello. Dopo quello stridente “non he ho voglia”, quest’uomo si guarda dentro e riconosce di aver sbagliato. Fa l’operazione faticosa di rendersi conto e di ammettere che si è comportato in modo scorretto. Probabilmente si accorge che la sua motivazione, basata sulla voglia del momento, è debole, inconsistente. Così si pente, e ripara al proprio errore cambiando rotta, riformulando la sua scelta. Va a lavorare nella vigna.

Nella vita di suo fratello invece non cambia nulla. La sua risposta: “Si, signore” non è che una maschera. Non c’è autenticità nel suo dire. Egli è nascosto dietro una parvenza di educata obbedienza, ma il suo cuore è lontano dalle sue parole, così il suo “Si” si trasforma in un sonoro “No” pratico.

Questi due figli assomigliano a coloro che hanno ascoltato la predicazione di Giovanni. I pubblicani e le prostitute, che con la loro vita avevano detto uno sfacciato “no” a Dio, poi hanno ascoltato Giovanni, si sono lasciati toccare dal suo messaggio, si sono convertiti. I capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo, sembrano dire di si a Dio, ma nel concreto il loro cuore non cambia. La loro condizione di vita è la loro maschera. 

Dobbiamo fare attenzione. Se le nostre attività, le nostre idee, le nostre pratiche religiose non cambiano in profondità il nostro cuore, se non ci portano a pentirci, a purificare pensieri e scelte, a cambiare vita, allora il rischio è che esse assomiglino a un si-maschera dietro il quale ci nascondiamo, illudendo prima di tutto noi stessi.

Lo Spirito Santo ci doni di essere gente autentica. Ci faccia la grazia di non accomodarci dietro al paravento di una vita che si accomoda, che si giustifica, che di fatto si maschera. Ci doni invece la grazia di lasciarci toccare, colpire, di accettare la fatica di rimetterci in gioco, di guardarci dentro, di lasciarci illuminare, di intraprendere strade sempre nuove di conversione. La luce dello Spirito faccia venire a galla i nostri “non ne ho voglia”, il nostro essere cioè sottomessi al nostro io con le sue voglie e i suoi bisogni, e non a Dio. La forza del Paraclito ci sostenga nel cammino della conversione, perché la nostra non sia mai una vita mascherata, ma trasformata dalla potenza di Dio.


Da uno sguardo ristretto, una presunzione sfacciata.

Vedere una storia o fotografare un istante

 

Mt 20,1-16

 

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «1 Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 3Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, 4e disse loro: «Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». 5Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. 6Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». 7Gli risposero: «Perché nessuno ci ha presi a giornata». Ed egli disse loro: «Andate anche voi nella vigna».

8Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: «Chiama i lavoratori e da' loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi». 9Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero ciascuno un denaro. 11Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». 13Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: 15non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». 16Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».


Non è degli uomini la giustizia, ma di Dio. Il padrone di questa vigna è ineccepibile. Egli da ai primi secondo i patti, agli ultimi secondo il suo giudizio, che è giudizio saggio, di chi conosce la realtà fino in fondo, di chi ha guardato bene negli occhi coloro che ha chiamato per ultimi, e vi ha visto dipinta dentro la frustrazione esasperata di chi è stato privato delle possibilità iniziali. Costoro non hanno avuto nemmeno l’occasione di esprimersi, di mostrare il loro valore, di guadagnarsi il pane per un giorno, perché nessuno li ha presi a giornata. Quella che questi tali patiscono, è un’ingiustizia sottile, che sta dentro la trama delle cose, dentro le pieghe del quotidiano. Un’ingiustizia che i nostri occhi faticano molto a scorgere, anzi, spesso non la vedono per niente. 

Al contrario, spesso l’uomo vede solo se stesso, giudica tutto a partire da se stesso, pretende che il suo punto di vista sia esaustivo. Ritiene tutto ovvio ed evidente. Non è forse evidente che chi ha lavorato meno debba guadagnare meno? E se domani questi stessi che hanno lavorato tutto il giorno si trovassero a non essere presi a giornata da nessuno, che cosa direbbero? Sarebbe giusto per loro rimanere senza lavoro, senza prospettive, senza sostentamento? 

Nel regno dei cieli la giustizia funziona bene. Il Signore non la amministra a partire da criteri arbitrari, e nemmeno in base ad uno sguardo corto, accecato, magari dalla giustizia. Il suo occhio non è cattivo, malato di invidia, ripiegato ossessivamente su se stesso. Egli conosce la vita dell’uomo, di ogni uomo. Conosce ciascuno di noi molto meglio di quanto non ci conosciamo noi stessi. Conosce le fatiche che neghiamo, gli ostacoli del cuore di cui non abbiamo coscienza, i pesi che portiamo senza riconoscerli o vederli. Conosce profondamente il nostro cuore, e non valuta solo gli esiti finali, ma tutto il percorso della nostra vita, a partire dalle condizioni di partenza, che egli conosce approfonditamente e non in modo superficiale. 

Nel regno, la giustizia è prima di tutto a favore del debole, di colui che non ha avuto le possibilità che erano giuste. Nel regno la giustizia è quella del Padre, e i discepoli del regno, si fidano del suo sguardo,  perché lo riconoscono più limpido e profondo del loro, e confidano nel suo giudizio, perché riconoscono che solo in lui c’è vera giustizia.


sabato 12 settembre 2020

Settanta volte sette

 Per fortuna i conti non tornano

 

Mt 18,21-35

 

 

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta voltesette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoiservi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato untale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, cosìcome io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

 

 

Trecentomila anni. Niente ferie, niente pensione, trecentomila anni di stipendio netto. Chi se li immagina? Chi potrebbe mettere da parte una simile somma? Chi potrebbe contrarre un debito così abnorme? 

Eppure i conti non sbagliano: un denaro è la paga di un operaio per un giorno di lavoro, cento denari sono tre mesi e mezzo circa di stipendio. Un talento però, che è una misura di peso, corrisponde a 34 kg circa di argento, cioè un po’ più di diecimila denari, trent’anni di lavoro; e diecimila talenti sono circa trecentomila anni di stipendio. Perché Gesù presenta una cifra così spropositata? Proviamo a partire dall’inizio.

 

Pietro si fa una domanda abbastanza comune a quel tempo. Quante volte si deve perdonare al fratello? La nostra saggezza popolare suggerirebbe che una volta va bene, due pure, ma la terza si passa il segno. L’opinione degli esperti della religione ebraica conferma che anche la terza volta si deve perdonare. Pietro però è un uomo generoso e intelligente. Ha compreso che il Maestro ragiona in grande, allora secondo lo slancio del suo cuore, si spinge in la, azzarda più del doppio, spara un numero importante, simbolico, che significa pienezza, sette! Fino a sette volte, così sono corrette le proporzioni del perdono?

 

Il problema è proprio questo, le proporzioni. La risposta di Gesù inizia ricordando un episodio biblico. In Gn 23b-24 Lamech promette di vendicarsi settanta volte sette (o settantasette volte, secondo l’interpretazione) per una sola scalfittura o un livido. Questa voragine di vendetta Gesù la trasforma in una voragine di perdono. Il padrone della parabola rinuncia a un debito di trecentomila anni di stipendio solo per la compassione. Questo padrone Con-patisce, invece che far valere le sue ragioni lascia che nel suo cuore entri la sofferenza, la pena di chi sta davanti a lui, di chi sta per essere venduto come merce, di chi sta immaginando questa sorte tristissima per sua moglie e i suoi figli. Questo padrone non agisce con inesorabile precisione, non mette sul piatto della bilancia il suo debito, ma la sofferenza del suo servo. 

 

Ecco perché scandalizza il suo puntiglio. Lui aveva un debito sconfinato, e diceva una pietosa bugia quando prometteva di restituire. Ora però non accetta la promessa di restituzione più che ragionevole di un debito molto contenuto, da parte di uno che gli è debitore. 

 

Perché mai però questo tale dovrebbe sentirsi in dovere di perdonare dopo essere stato perdonato? Perché questo perdono grande sta sul piano delle relazioni, parla di un’accoglienza grande. C’è uno che poteva schiacciarti, soffocarti, annientarti, e invece ha preferito soffrire con te. Se vivi una relazione così non puoi che cambiare radicalmente. Se ti rendi conto che questa relazione ti ha dato il bene della vita, che tu vivi per il bene che sgorga dalla compassione, allora il tuo cuore ne sarà cambiato. Se invece il tuo cuore non è cambiato, allora bisogna concludere che non hai accolto il dono, lo hai solo sfruttato a tuo vantaggio. Non ti sei lasciato abitare dal perdono, ne hai solo approfittato. Pensi di averla fatta franca, non capisci che hai ricevuto una nuova vita. Hai colto l’aspetto superficiale delle cose, che cioè sei libero dal debito, ma non hai accolto la forza che ti ha liberato. Se non cerchi di perdonare, significa che non sai cosa significhi essere perdonato. 

 

Questo non nega che il perdono comporti una grande fatica e un lungo cammino. Questo non significa che perdonare sia alla nostra portata. Dobbiamo chiedere a Dio il dono di saper offrire il perdono, di maturarlo nel cuore per donarlo agli altri. se però ci scoprissimo intestarditi nel puntiglio di non perdonare, allora dovremmo concludere che abbiamo bisogno di approfondire l’incontro con il Signore, con quel Dio che mette sul piatto della bilancia noi, il nostro bene, la nostra salvezza, e che per questi beni è disposto a spendere tutto, a mettere in gioco tutto quello che ha, tutto se stesso. Il crocifisso ci parla di questo!