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giovedì 30 dicembre 2021

Natale, lo stile di Dio che sorprende

Uno splendore che dirada ogni tenebra

 


 

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Nessuno ha mai visto Dio. (Gv 14,18) Molte volte ci fermiamo qui. Rischiamo di vivere come se l’incarnazione non fosse mai avvenuta, come se Dio fosse chiuso nella sua distanza, nel suo mistero. Rischiamo di vivere come se non potessimo sapere nulla di lui, come se dovessimo accontentarci di farci un’idea, e questo è quanto mai pericoloso. Le nostre idee di dio sono traballanti, lacunose, deformanti. Hanno a che fare con i nostri pregiudizi e le nostre paure. Proprio le paure spesso ci spingono ad immaginare un dio severo, che ci misura, che ci giudica. Temiamo le nostre fragilità, le nostre inadeguatezze, i fallimenti; queste paure diventano presto giudizi negativi su noi stessi, ed altrettanto presto attribuiamo questi giudizi a Dio. Temiamo il confronto con la realtà, con gli altri, e le paure diventano giudizi, giudizi divini.

 

Viviamo in un mondo che vive la logica del più forte, del più furbo, del più potente. Al tempo della nascita di Gesù, Cesare Augusto aveva prodotto disagio e scompiglio imponendo con il potere il censimento. Oggi i poteri in atto sono altri, ma sono altrettanto capaci di pesare sulle nostre vite. In modo subdolo deformano il nostro punto di vista, la lucidità dei pensieri. Creano bisogni e indirizzano scelte. I “Cesare Augusto” e i “Quirinio” di oggi hanno il nome di poteri economici, di idee di tendenza, di influencer in vista. Non muovon più le masse con editti, ma con la logica delle tendenze, dello stato sociale, delle mode, dei “mi piace”, degli standard, dell’adeguatezza, della competizione  spietata, della prestazione.

 

Viviamo in questo contesto, e rischiamo sempre di esserne condizionati. Siamo immersi in logiche di potere che finiamo per credere giuste e dalle quali ci facciamo giudicare. Ci sentiamo buoni o cattivi a partire da criteri che ci sono imposti, che non valorizzano la nostra originalità, anzi la costringono e la mortificano dentro criteri che non ci appartengono. Siamo sballottati da potenti e finiamo per desiderare noi stessi di diventare potenti. Vogliamo avere tutto sotto controllo. Quello che c’è dentro di noi e quello che sta fuori. Viviamo di ansia per quello che non raggiungiamo e non siamo, e nel frattempo dimentichiamo che, dentro di noi, impastato con i limiti, c’è un tesoro prezioso, originale, che Dio ha dato a ciascuno e che attende, talvolta purtroppo inutilmente, di germogliare. 

 

Così travolto da queste dinamiche, il mondo non si importa di Dio. La vicenda di Maria e Giuseppe sembra del tutto marginale. Cos’è una giovane coppia di fronte a tutto il resto? Sono giovani, che pensino loro a sé stessi. Gli abitanti di Betlemme sono distolti da ben altre occupazioni e preoccupazioni. C’è da far polemica sul potere dei romani, che divide gli uni dagli altri, quelli che lo vorrebbero cavalcare da quelli che lo vorrebbero combattere. C’è da cogliere l’occasione del censimento per raggranellare qualche quattrino. C’è frenesia, paura, rabbia, fastidio, e chissà cos’altro nel cuore della gente. Di certo non c’è posto, per null’altro. Così il Figlio di Dio nasce in una situazione di perfetta inadeguatezza, di totale marginalità, fuori dai giochi della storia, dalle vicende che contano secondo gli uomini. Il Verbo si fa carne, ma i suoi non lo accolgono (Lc 2,7 e Gv 1,11). Così, la vicenda di Maria e Giuseppe potrebbe apparire più che altro come una disavventura, ma che Dio è quello che dopo averli chiamati, dopo aver affidato loro un compito, li abbandona nella disavventura?

 

Potrebbe essere una domanda fondamentale del Natale. Che Dio è mai questo? È un Dio che si può conoscere solo se egli stesso si rivela a noi (Gv 1,18). Possiamo conoscere questo Dio solo se, come i pastori, accettiamo di metterci in viaggio. Il segno che l’angelo offre loro è piccolo, del tutto ordinario, potrebbe sembrare banale e insignificante. Un bambino. Tenero per carità, ma nemmeno conoscono i suoi genitori, e poi quanti bambini nascono sulla terra? Non sarà come tutti gli altri, fragile, muto, bisognoso di tutto? Sarà forse lui a fare la differenza? Eppure i pastori si mettono in cammino, e scoprono che è proprio così. Un bambino fa la differenza. Dio ha deciso di entrare nella storia del mondo facendo la differenza. Per questo Non si mette in competizione con i potenti e non esercita un potere come loro lo esercitano. Non fa clamore e non cerca consenso, Si fa spazio silenziosamente a partire da chi lo accoglie. Non fa guerra a chi lo rifiuta. Non forza, non fa pubblicità ne “campagna elettorale”. La porta attraverso la quale Dio entra nella storia è il cuore di chi lo accoglie, in silenzio. Egli viene a compiere la promessa di bene che c’è nel cuore di ciascuno. Non magicamente, ma accompagnando il nostro cammino umano con la sua potenza divina. La presenza di Dio, per chi la accoglie, ha le sembianze di una vita nuova, che come un bambino è fragilissima eppure ricca di potenzialità. Chi se ne prende cura la vede crescere giorno dopo giorno, e piano piano si accoglie dello straordinario che sta in quella vicenda intima, apparentemente così nascosta. Dio cambia il mondo a partire dal cuore di chi lo accoglie. Non fa salvezza lontano, in modo che la si debba rincorrere, guadagnare, meritare. Lui è salvezza, dentro la vita concreta, non conta se essa è limitata e marginale, anche la mangiatoia di Betlemme lo era.

 

C’è un potere che Dio porta con se, ma per consegnarlo a noi. È il potere di diventare figli, di nascere di nuovo, non dalla carne e dal sangue, ma dal suo Amore fecondo (Gv 1,12-23). Chi accoglie è generato di nuovo. Chi fa spazio è inondato di nuova vita. Rinasce chi crede a lui, chi accetta di abbandonare le sue idee e i suoi idoli per mettersi in viaggio verso di lui. Non c’è bisogno di nessun requisito iniziale. Non importano i giudizi, né quelli del mondo né quelli durissimi che ciascuno pronuncia per se stesso. Non c’è buono o cattivo, adeguato o inadeguato, sufficiente o insufficiente. Non c’è ricco o povero, saggio o ignorante. Non c’è vicino o lontano, santo o peccatore. Davanti al Verbo eterno di Dio che si fa carne, davanti all’annuncio dell’Angelo ai pastori, c’è solo chi accoglie e chi rifiuta. Nella vita di chi lo accoglie, Dio nasce e fa germogliare una vita nuova che, come quella di un bambino in fasce, avrà bisogno di essere alimentata e custodita, ma che viene data in dono senza nessuna discriminazione. Anzi, Come un giorno il Verbo si fece carne in un lembo emarginato dell’umanità, anche oggi egli nasce in quell’angolo del cuore dove abbiamo nascosto le nostre debolezze. Egli viene ad abitare in noi là dove ci sentiamo inadeguati, non all’altezza. C’è posto per lui nel cuore proprio dove ci sono le nostre fragilità, i nostri limiti, la paura di non farcela, di non riuscire a vivere quello che vorremmo. C’è spazio per Lui che salva là dove il potere ci tiene prigionieri, ci mortifica, ci causa ribellione, frustrazione e tristezza, dove il passato ci tormenta con le sue ferite e le sue conseguenze che sembrano definitive. C’è un alloggio per lui là dove ci assale la paura di non trovare la strada della nostra realizzazione, o di
rovinare tutto a causa dei nostri errori, della nostra piccolezza.

 

Mettersi in viaggio dunque, ed accogliere, ma non basta. Una vita che nasce porta con sé un potenziale immenso che si dispiega nel tempo, che ha bisogno di cura e pazienza. Un neonato è fatto per diventare uomo, e molto di quel che sarà è del tutto imprevedibile per chi lo guarda. Così, Maria custodisce e medita. Custodisce, perché la frenesia delle cose non si porti via un dono così grande. Medita, e così accoglie sempre di nuovo il senso della sua vita. Chiamata ad essere madre di Dio, diventa madre giorno dopo giorno, vivendo in profondità la relazione con quel Dio bambino che cresce accanto a lei. La sua vocazione è impastata di fedeltà, di perseveranza. La sua identità le viene sempre di nuovo dalla relazione con quel bimbo. Così per noi. Giorno dopo giorno, sempre di nuovo in cammino, sempre di nuovo intenti ad accoglierlo, vediamo la sua vita crescere in noi, accogliamo da lui la nostra identità. Accogliendo sempre più pienamente lui diventiamo sempre più pienamente noi stessi.

 

Che il mistero del Natale ci possieda. Che non si spenga in noi l’eco di quella voce: “Oggi è nato per voi un Salvatore…”, e ci spinga sempre di nuovo a metterci in cammino verso di lui. Che la luce del verbo, che è la nostra vita, continui a risplendere in noi, e diradi nel nostro cuore quella la tenebra che ricopre la terra, quella nebbia fitta che avvolge i popoli (Is 60,2) e ci mostri la via della nostra concreta, autentica salvezza. 

sabato 25 dicembre 2021

Avvento

 Sulla soglia di un mondo nuovo

ripensando ai vangeli del tempo di Avvento



I discepoli di Gesù vivono sulla soglia della porta che il Signore ha spalancato per loro. Sono immersi nella realtà, ne patiscono le contraddizioni, ne godono le risorse, ne soffrono la decadenza, ne colgono le occasioni, ne sperimentano il travaglio. Il loro sguardo però, oltre la porta, contempla la promessa del regno. Anzi, proprio perché vivono sulla soglia, non solo contemplano, ma anche pregustano la pienezza e l’eternità, e inebriati da essa vivono ogni cosa con uno spirito diverso, nuovo.


I credenti vivono in un’umanità che ha respinto Dio, lo ha reso insignificante, lo ha dimenticato come si dimentica un vecchio ricordo imbarazzante. L’avventura dell’uomo senza Dio però, si rivela sempre di nuovo drammatica. Senza di lui, nulla costituisce un punto di riferimento stabile che resista alle avversità della vita e alla morte. Nulla garantisce salvezza dentro i limiti dell’umanità. Senza di lui nessuna morale regge davvero, nessuna prospettiva riempie davvero il cuore. Dentro questo smarrimento, alcuni si illudono pensando che il loro potere economico e sociale li salvi e li compia.   Alcuni vivono in un rassegnato fatalismo. Altri ancora consumano un eterno presente, succhiano con smania relazioni ed eventi, sempre ebbri e sempre vuoti, sempre gratificati e frustrati ad un tempo. 


Senza Dio l’umanità è travolta dalla sua caducità, la finitezza delle cose, di tutte le cose. Tutto passa, il cielo e la terra passeranno. Passano le strutture degli uomini, le loro organizzazioni. Entrano in crisi le tradizioni, le costruzioni, i progetti. Le istituzioni più solide e fondate, anche quelle religiose, prima o poi vedono la crisi e passano. Tanto più hanno la pretesa di essere stabili, eterne, tanto più fanno danni quando la loro natura, fisiologicamente caduca, le fa scricchiolare, vacillare, implodere.  Chi si prodighi a tenerle in piedi, ottiene lo stesso risultato che si avrebbe tentando di rianimare un cadavere. Davanti a questo panorama, a questa ciclica distruzione, qualcuno annunciano sventure, disgrazie che sono castighi, orizzonti angosciati di giudizio severo, di condanna, di eterna pena. Qualcuno cerca di darsi certezze annunciando l’arrivo della fine del mondo, o identificando in un luogo o in una persona l’arrivo del regno o il ritorno del Signore. Le parole di Gesù sono chiare: “nessuno conosce il giorno e l’ora”. E ancora “vi diranno: “eccolo qui… sono io…” non credeteci, non andateci”. 



I discepoli di Gesù vivono intensamente questa vicenda e ne patiscono il travaglio, ma non vi restano imprigionati perché abitano sulla soglia, vigilano. Stanno svegli non perché temono che la decadenza del mondo , ma perché non vogliono esserne inquinati e travolti. Vogliono custodire e rinnovare ogni giorno la forza di sfuggire a questi inganni, alle paure, alle finzioni che impoveriscono e impediscono la vita, al mito dell’uomo autosufficiente, gonfio della propria illusoria autonomia o arrabbiato contro il suo eterno vuoto, ma sempre intento ad esorcizzare la morte. I credenti non temono di morire, ma di non riuscire ad accogliere la pienezza del dono di Dio, di non vivere in maniera autentica e compiuta. Stanno svegli non come chi, a causa dell’angoscia o della smania, è stato abbandonato dal sonno. Nemmeno però dormono il sonno incosciente e presuntuoso di chi pensa di bastare a se stesso. La loro vigilanza è a tratti faticosa, ma serena, attende l’incontro con l’amato, il compiersi di un amore che già li tiene in vita, ma che promette un orizzonte sempre più grande e che si compirà all’arrivo dello sposo.


Gesù Cristo è venuto a portare salvezza. Egli invita i suoi discepoli a non pretendere di incasellare il tempo e la storia. Arrovellarsi cercando di stabilire il giorno del giudizio e della fine è una diabolica perdita di tempo. Piuttosto i discepoli approfondiscono la relazione di fiducia con il loro salvatore. Mentre il mondo vacilla, mentre le sue strutture implodono, mentre avanza la sua cultura, fatalmente segnata dalla morte, i credenti  si alzano in piedi e levano lo sguardo al di la della soglia, oltre la porta che fa loro contemplare il regno. Essi non sono preda della paura, non temono, confidano nel loro Signore. Non hanno la smania di conoscere il futuro, sanno che esso è nelle mani del Salvatore, e che uniti a lui sapranno affrontare ogni evento.


Davanti alle alterne vicende della storia, i credenti non fuggono, non cercano qualche tecnica per annebbiare i sensi, per proteggersi in una bolla ovattata di inconsapevolezza. Non si perdono in esagerazioni e in ubriachezze. Restano presenti e lucidi perché sanno che proprio lì, dentro la storia concreta il Signore viene loro incontro. Egli è presente, e i suoi non vogliono rischiare di essere assenti, di disertare l’incontro.  Quella del Signore è una presenza dinamica, egli arriva, sempre di nuovo. Passa e mette in moto il cammino, lo orienta, lo rinfranca. Si presenta in una parola, nel volto di un fratello, in una ferita da sanare, in una fatica da leggere con speranza. Per questo è importantissimo, irrinunciabile, ma non sufficiente vivere di appuntamenti saltuari (quello ad esempio dei sacramenti). I credenti vegliano per essere sempre presenti, sviluppano una particolare sensibilità alla sua voce per cogliere ogni soffio del suo passaggio, ogni piccolo segno del suo sorprendente farsi vicino. 


I discepoli di Gesù non si accontentano però di attendere, di vegliare, di cercare la presenza del Signore. Essi anche agiscono. Sanno bene che il loro impegno per la giustizia non basta, non basta la loro carità, non è sufficiente il loro impegno, ma questo non ferma il loro impegno. Essi fanno tutto quello che possono senza disperare, senza provare disillusione o senso di fallimento. Lavorano sapendo il Signore compie la loro fatica. Misurare i risultati è troppo poco per loro, essi vivono proiettati nella causa del regno che va ben oltre i conti degli uomini, anzi, talvolta li stravolge. Non contano solo sulle loro forze, le mettono in campo con generosità e dedizione attendendo il più forte, colui che porta la salvezza. 

I discepoli del Signore vivono nel mondo, ma hanno accesa nel cuore la fiamma viva di una promessa che si compie nell’eternità. Sono saldamente ancorati tanto alla terra quanto al cielo. Vivono nell’intimità con lo sposo l’anticipo del paradiso, e portano nella concretezza della quotidianità la sua luce, la sua speranza. Pregano, vegliano, lavorano,  si impegnano nelle umane attività, soffrono, consolano, camminano, accolgono e patiscono rifiuto, piangono e cantano, ma sempre nel loro cuore vi è un’invocazione, che è domanda, ma muove da una certezza, è il grido sommesso e incessante: “Maranatha, vieni Signore Gesù”.